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    Dobbiamo decidere che ora è sulla Luna

    Una delle cose che bisogna fare per procedere con il programma spaziale Artemis, pensato per riportare gli esseri umani sulla Luna, è stabilire che ora è sul nostro satellite naturale. È una questione più complicata di quanto possa sembrare e la NASA, l’Agenzia spaziale europea (ESA) e altre agenzie spaziali internazionali ci stanno lavorando da tempo. Sui giornali se ne riparla in questi giorni perché il 2 aprile il governo statunitense ha diffuso una circolare che riassume le ragioni per cui serve decidere un orario lunare standard entro la fine del 2026, indirizzata alla NASA stessa e a tutte le altre agenzie federali coinvolte.Sulla Luna la forza di gravità è inferiore a quella della Terra perché la Luna ha una massa inferiore a quella del nostro pianeta. La Teoria generale della relatività, formulata da Albert Einstein nel 1915, mette in relazione gravità, spazio e tempo, e comporta che il tempo misurato da due orologi scorre diversamente se sperimentano una attrazione gravitazionale diversa come quella della Terra e della Luna. Per un osservatore sul nostro pianeta, un orologio lunare va più veloce per via della differenza di gravità.
    Più specificamente un orologio sulla Luna inizialmente sincronizzato con uno sulla Terra sarebbe avanti di circa 56 microsecondi (cioè di 56 milionesimi di secondo) dopo 24 ore, di 112 dopo 48 ore e così via. Per la vita quotidiana sulla Terra durate nell’ordine dei microsecondi sono piuttosto trascurabili, ma si tratta di differenze che possono dare problemi quando bisogna programmare lanci di astronavi, allunaggi e orbite satellitari tra agenzie spaziali di 36 paesi diversi e aziende private. Sono tutte attività che necessitano estrema precisione.
    Per le missioni Apollo, che portarono esseri umani sulla Luna tra il 1969 e il 1972, la NASA utilizzò come indicazione temporale il fuso orario centrale degli Stati Uniti, perché l’agenzia spaziale aveva il proprio centro di controllo a Houston, in Texas. Ma si servì contemporaneamente anche del tempo trascorso dal lancio (mission elapsed time, abbreviato con MET) per evitare fraintendimenti con gli astronauti.
    Il programma Artemis però ha ambizioni maggiori rispetto alle missioni Apollo, tra cui la realizzazione di Gateway, una piccola base orbitale che sarà assemblata intorno alla Luna, e quella di un’eventuale base sul suolo lunare, e, sul lungo periodo, le basi per future missioni verso Marte. La misura del tempo serve per trasmettere informazioni sulle localizzazioni di oggetti in movimento, che nel caso di Artemis coinvolgeranno altre agenzie spaziali e aziende oltre alla NASA, e per tutte queste ragioni è necessario fissare un orario lunare standard di cui si tenga conto nelle comunicazioni tra Terra, satelliti, basi lunari e astronauti.
    Per stabilire questo orario, il “tempo coordinato lunare” (LTC), ci sono vari aspetti da tenere in considerazione, menzionati anche nella circolare del governo statunitense.
    Uno è che l’orario lunare dovrà essere riconducibile al tempo coordinato universale (UTC), il fuso orario usato come riferimento globale per la Terra, quello che fa da punto di partenza per calcolare tutti gli altri – ad esempio attualmente in Italia siamo nel fuso orario formalmente indicato come UTC+2, due ore avanti rispetto allo UTC. A certificare l’ora esatta nello UTC è l’Unione internazionale delle telecomunicazioni (ITU), una delle agenzie specializzate delle Nazioni Unite, grazie a una rete di orologi atomici, dispositivi estremamente precisi che sfruttano i livelli di energia (orbitali) degli elettroni all’interno degli atomi per calcolare il tempo con un margine di errore molto basso.
    Per decidere il tempo coordinato lunare la NASA, l’ESA e le altre agenzie spaziali coinvolte nel programma Artemis stanno considerando l’ipotesi di installare degli orologi atomici in punti diversi della Luna. Ne servirebbero almeno tre per ottenere una misura del tempo precisa che tenga conto di tutti gli effetti relativistici, dovuti principalmente alla gravitazione.
    Attualmente l’ora esatta dello UTC viene periodicamente trasmessa dalla Terra ai satelliti e alle sonde nello Spazio, in modo che siano sincronizzati con il fuso orario di riferimento. Avere degli strumenti che misurino il tempo in maniera affidabile e in autonomia direttamente sulla Luna ridurrebbe sensibilmente la necessità di sincronizzare di continuo l’orario dalla Terra, un’attività che richiede antenne terrestri potenti e un costante lavoro di aggiornamento, dunque un grande dispendio di energia per la trasmissione dei dati.
    Secondo i piani della NASA più aggiornati il primo allunaggio umano di Artemis avverrà nel settembre del 2026, mentre nel settembre del 2025 partirà una missione che porterà in orbita attorno alla Luna e poi di nuovo sulla Terra senza mettere piede sul satellite quattro astronauti. Anche la Cina progetta di portare delle persone sulla Luna: entro il 2030. L’India vorrebbe farlo entro il 2040.
    Come dice la recente circolare del governo statunitense, per definire il tempo coordinato lunare serviranno degli accordi internazionali tra i paesi coinvolti all’interno di Artemis (la Cina, così come la Russia, non lo è), e gli enti che già oggi si occupano degli standard di misura.

    – Approfondisci: Che ora è sulla Luna? LEGGI TUTTO

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    SpaceX ci riprova con Starship

    Dopo due tentativi non riusciti, oggi la società spaziale privata statunitense SpaceX proverà a raggiungere lo Spazio con la sua enorme astronave Starship e a farla poi rientrare nell’atmosfera fino alla sua distruzione nell’oceano Indiano.Salvo rinvii, il test sarà effettuato intorno alle 14 (ora italiana, inizialmente era previsto per le 13) e servirà a verificare i nuovi progressi nello sviluppo del sistema di lancio e dell’astronave, entrambi essenziali per il programma lunare Artemis della NASA per tornare a esplorare la Luna con esseri umani, a più di 50 anni dall’ultimo allunaggio delle missioni Apollo. Come i precedenti, anche questo lancio è sperimentale e svolto senza persone a bordo: potrebbe finire con un grande successo, o con una nuova gigantesca esplosione.
    SpaceX sta lavorando a Starship ormai da una decina di anni, con l’obiettivo di avere un sistema di lancio e un’astronave molto più potenti dei razzi che attualmente utilizza per portare satelliti in orbita ed equipaggi e rifornimenti verso la Stazione Spaziale Internazionale. Lo sviluppo si è rivelato molto più lungo e complesso rispetto a quanto previsto da Elon Musk, il CEO di SpaceX, che inizialmente aveva prospettato la possibilità di raggiungere Marte nei primi anni di questo decennio. Le cose sono andate molto diversamente e si sono accumulati ritardi che potrebbero condizionare anche il programma Artemis, i cui obiettivi lunari non sono da poco, ma comunque meno ambiziosi di quelli marziani.
    Starship è un’astronave alta 50 metri, quanto un palazzo di 16 piani, e ha un diametro di 9 metri circa: utilizza sei motori alimentati con ossigeno liquido e metano liquido, che a pieno carico raggiungono circa 300 delle mille tonnellate della massa dell’astronave. Quando sarà funzionante potrà essere impiegata per il trasporto in orbita di satelliti di grandi dimensioni, di moduli per le stazioni spaziali e degli equipaggi verso la Luna. Starship è progettata per raggiungere l’orbita terrestre o altri corpi celesti e tornare sulla Terra con un atterraggio controllato, per poter essere riutilizzata.
    Starship sulla rampa di lancio a Boca Chica in Texas (Brandon Bell/Getty Images)
    L’astronave non ha però la potenza sufficiente per superare da sola l’atmosfera terrestre. Per darle la spinta necessaria viene utilizzato Super Heavy, un grande razzo alto quasi 70 metri e dotato di 33 motori, sempre alimentati da ossigeno liquido e metano liquido. Super Heavy è stato progettato per spingere Starship oltre l’atmosfera ed effettuare una manovra per tornare in seguito sulla Terra, come fanno già i Falcon 9, i razzi parzialmente riutilizzabili di SpaceX. Con questa soluzione non è necessario costruire nuovi razzi per ogni lancio e si possono ridurre molto i costi per i lanci e renderli più frequenti.
    Se nella teoria tutto questo funziona senza problemi, nella pratica il sistema si è rivelato complesso da sviluppare e gestire sia per le grandi sfide tecniche, sia banalmente per avere elaborato una soluzione completamente nuova che deve essere sperimentata. I due lanci svolti finora sono serviti proprio a questo: due test su grande scala per scoprire che cosa funziona, cosa no e cosa deve essere cambiato. Soprattutto grazie a un appalto da 2,9 miliardi di dollari affidato dalla NASA per realizzare Artemis, SpaceX può permettersi di sperimentare sul campo i propri sistemi e vederli distruggere raccogliendo nel frattempo quanti più dati possibili per migliorare le versioni successive dei propri razzi dal costo di svariate centinaia di milioni di dollari.
    Il primo test effettuato nell’aprile del 2023 era stato in questo senso molto istruttivo. I motori Raptor di Super Heavy avevano danneggiato la rampa di lancio, poi diversi di loro avevano smesso di funzionare correttamente rendendo necessaria la distruzione del razzo e di Starship per motivi di sicurezza. I dati raccolti avevano portato alla costruzione di una piattaforma di lancio rinforzata, con getti d’acqua per attutire l’onda d’urto generata all’accensione dei motori, e alla revisione del funzionamento stesso dei motori e dei tempi di accensione di quelli che si trovano su Starship quando questa si separa da Super Heavy per proseguire il proprio viaggio verso lo Spazio.
    Starship poco dopo l’esplosione nell’aprile del 2023 (AP Photo/Eric Gay)
    Il secondo test a novembre 2023 aveva mostrato importanti progressi: la prima fase del lancio si era svolta regolarmente, con la separazione tra Super Heavy e Starship. Un problema ai motori rese però necessaria l’autodistruzione di Super Heavy quando era ancora negli strati più alti dell’atmosfera, annullando quindi il rientro previsto nelle acque del Golfo del Messico. A causa di una perdita fu necessario interrompere anche il volo di Starship, che nei piani avrebbe dovuto raggiungere un punto dell’oceano Pacifico non molto distante dalle isole Hawaii.
    In un certo senso il lancio di novembre era stato un grande fallimento, ma di successo: Starship aveva raggiunto per la prima volta lo Spazio, seppure per pochissimo tempo, dimostrando la tenuta di molti sistemi.
    Per il lancio di oggi SpaceX ha previsto diverse novità, a cominciare da come sarà gestito il rifornimento di Super Heavy e Starship a Boca Chica, la base di lancio che la società ha costruito e via via espanso in questi anni in Texas. Il rifornimento sarà effettuato a ridosso del lancio, terminando pochi minuti prima dell’accensione dei motori, grazie a un sistema più rapido e potente per trasferire metano liquido e ossigeno liquido nei grandi serbatoi.
    Quando mancheranno tre secondi alla fine del conto alla rovescia, Super Heavy accenderà i motori in modo da raggiungere la potenza necessaria a 0 secondi. Il razzo con in cima Starship sarà diretto verso est e dopo poco meno di 3 minuti si separerà dall’astronave, che a quel punto avrà già acceso i propri motori e proseguirà la salita per superare l’atmosfera terrestre. Raggiunto lo Spazio, non compirà comunque un giro completo intorno alla Terra, ma una lunga parabola che la porterà a rientrare quando si troverà sopra l’oceano Indiano.
    (SpaceX)
    Prima del rientro, SpaceX proverà a sperimentare l’apertura e la chiusura del grande portellone dell’astronave, che in futuro servirà per depositare in orbita satelliti e altro materiale. Saranno anche testati alcuni sistemi per effettuare il rifornimento in orbita di Starship, con altre astronavi simili, necessario per le missioni verso la Luna e oltre. Un rifornimento orbitale di questo tipo non è mai stato sperimentato prima e aggiunge ulteriori complicazioni per i piani lunari della NASA (qui è spiegato più estesamente). SpaceX proverà inoltre a far accendere nuovamente alcuni dei motori Raptor di Starship nell’ambiente spaziale, per verificare il loro funzionamento visto che non sono mai stati sperimentati oltre l’atmosfera terrestre.
    Terminati i test nello Spazio, Starship orienterà la parte dell’astronave dotata di uno scudo termico, formato da migliaia di piccole piastrelle per resistere alle alte temperature che si sviluppano durante il rientro nell’atmosfera. Se tutto procederà secondo i piani, l’astronave raggiungerà intera l’oceano Indiano disintegrandosi nell’impatto ad alta velocità con l’acqua (SpaceX non recupererà né Starship né Super Heavy).
    Il piano per il lancio di oggi è quindi molto più ricco e articolato di quelli dei precedenti due test, finiti con spettacolari esplosioni. I responsabili della missione sperano che il lancio di oggi sia spettacolare in altro modo. LEGGI TUTTO

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    Il lander Odysseus è caduto su un lato

    Il lander Odysseus, che ha raggiunto il suolo della Luna venerdì ed è il primo veicolo spaziale degli Stati Uniti a compiere un allunaggio controllato dai tempi delle missioni Apollo, è con ogni probabilità caduto su un fianco. Lo ha fatto sapere Intuitive Machines, la società privata che l’ha costruito e che collabora con la NASA alla missione.Il lander è ancora funzionante, ma anziché appoggiarsi sulla sua base composta da sei “zampe”, come previsto originariamente, durante la fase di contatto con il suolo lunare non è riuscito a stabilizzarsi completamente ed è caduto su un lato: molto probabilmente la sommità del lander è appoggiata a una roccia, e il lander è sdraiato.
    Nonostante questo dovrebbe essere in grado di proseguire parte della sua missione, che comporta analisi ed esperimenti da fare per conto della NASA. Ci sono però degli ostacoli. Ora che Odysseus è sdraiato su un fianco, le sue antenne non puntano direttamente alla Terra, cosa che potrebbe limitare il flusso di comunicazioni. Intuitive Machines ha detto di aver ricevuto comunicazioni da Odysseus, ma che il lander non ha ancora cominciato a fare fotografie del suolo lunare, come avrebbe dovuto fare.
    In conferenza stampa Stephen Altemus, l’amministratore delegato di Intuitive Machines, ha detto che ci sono buone speranze che Odysseus riesca a portare avanti i suoi esperimenti perché il grosso delle strumentazioni scientifiche si trova nella parte del lander che è rivolta verso l’alto e non al suolo, cosa che potrebbe comunque consentirne l’utilizzo. «Abbiamo ancora abbastanza capacità operative anche se siamo caduti su un fianco», ha detto Altemus.
    (NASA via AP)
    Odysseus fa parte della classe di veicoli Nova-C sviluppati sempre da Intuitive Machine, e ha l’aspetto di un grande prisma a base esagonale sorretto da sei “zampe”. Ha una massa di quasi 2 tonnellate e un diametro di 2 metri, e raggiunge un’altezza di circa 3 metri. L’attuale missione, denominata IM-1, è per lo più dimostrativa e serve per verificare le capacità di allunaggio automatico del sistema e per trasportare alcuni esperimenti e altro materiale sulla Luna.
    IM-1 fa parte del Commercial Lunar Payload Services (CLPS), il programma avviato dalla NASA per inviare sulla Luna piccoli robot automatici per esplorarne il suolo, raccogliere dati sulle sue caratteristiche e prepararsi meglio alle future esplorazioni con esseri umani del programma lunare Artemis.
    A differenza di quanto avveniva un tempo, l’iniziativa prevede un forte coinvolgimento di aziende private, che hanno la diretta responsabilità sull’organizzazione della missione e che la finanziano attraverso contratti di appalto con la NASA e accordi con altre aziende e organizzazioni, interessate a trasportare sulla Luna robot, sensori, oggetti e persino le ceneri di persone che in vita avevano espresso il desiderio di essere sepolte tra i crateri lunari. LEGGI TUTTO

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    Uno storico satellite sta precipitando verso la Terra, ma non c’è da preoccuparsi

    Caricamento playerIl satellite ERS-2, grande più o meno quanto un minibus, sta precipitando verso la Terra. Ma non c’è da preoccuparsi: il suo rientro incontrollato nell’atmosfera avverrà nella serata di oggi e buona parte del satellite si disintegrerà ad altissima quota, con solo qualche possibilità che alcuni frammenti raggiungano il suolo.
    Non è la prima volta che succede, ma l’evento è a suo modo storico perché segna la fine dei uno dei primi satelliti europei per lo studio del clima lanciato a metà degli anni Novanta, con tecnologie all’epoca ancora poco utilizzate in orbita e che ora fanno parte di molti satelliti per l’osservazione del suolo, degli oceani e delle caratteristiche dell’atmosfera.
    Il satellite era stato sviluppato grazie a una collaborazione gestita dall’Agenzia spaziale europea (ESA) nell’ambito del programma European Remote Sensing (ERS) per lo studio della Terra all’inizio degli anni Novanta. L’ESA aveva inviato in orbita ERS-1 nel 1991 e quattro anni dopo aveva lanciato ERS-2, il satellite che ora sta tornando verso il nostro pianeta.
    La missione scientifica di ERS-2 era durata fino al 2011: anche se dopo 16 anni il satellite era ancora funzionante, l’ESA aveva deciso di fermarne le attività e di farlo distruggere nell’atmosfera, in modo da ridurre la presenza dei rifiuti spaziali in orbita, un problema sempre più sentito e con notevoli rischi per il funzionamento delle altre migliaia di satelliti che girano intorno alla Terra.
    Dopo aver fatto alcune manovre, il satellite era stato portato dai 780 chilometri dove effettuava buona parte delle proprie rilevazioni a 573 chilometri di altitudine e disattivato, in modo che lentamente perdesse quota fino a compiere un ingresso nell’atmosfera in una quindicina di anni. La previsione era abbastanza accurata e ora ERS-2 sta perdendo quota più velocemente e secondo le previsioni terminerà il proprio viaggio nella serata di mercoledì.
    Il satellite ERS-2 nelle fasi di preparazione prima del lancio (ESA)
    Non è però semplice stabilire con certezza su quale porzione del pianeta avverrà la distruzione, perché molto dipende dalla velocità del rientro e dalla densità dell’atmosfera, che varia a seconda di numerose variabili compresa l’attività solare. La traiettoria seguita da ERS-2 è comunque tenuta sotto controllo dall’ESA e da diverse altre organizzazioni, in modo da poter fare stime più accurate quando il satellite sarà intorno agli 80 chilometri di altitudine, il probabile momento in cui avverrà la distruzione.
    ERS-2 ha una massa di 2,5 tonnellate, comparabile con quella di diversi altri satelliti e detriti spaziali che in media rientrano nell’atmosfera con una frequenza di 7-15 giorni. A differenza dei satelliti più recenti, solitamente progettati per produrre la minor quantità possibile di detriti, ERS-2 ha alcuni componenti che potrebbero resistere alle sollecitazioni e alle alte temperature che si sviluppano nel rientro nell’atmosfera. La sua antenna principale era stata costruita in fibra di carbonio, un materiale molto resistente, di conseguenza alcune sue parti potrebbero arrivare al suolo.
    Anche se così fosse il rischio per la popolazione sarebbe comunque minimo, come ha spiegato l’ESA:
    Il rischio su base annua per un essere umano di essere ferito da un detrito spaziale è inferiore a 1 su 100 miliardi. Per fare un confronto, è un rischio: circa 1,5 milioni di volte inferiore rispetto a quello di morire in un incidente domestico; circa 65mila volta inferiore rispetto al rischio di essere colpiti da un fulmine; circa tre volte inferiore rispetto al rischio di essere colpiti da un meteorite.
    Il rischio è molto basso per un semplice motivo: buona parte della Terra è disabitata, considerato che gli oceani da soli ne ricoprono il 70 per cento e che ci sono enormi porzioni di territorio in cui non vive nessuno. La maggior parte degli esseri umani vive in aree densamente popolate e questo può creare una percezione distorta sull’effettiva presenza umana in tutto il pianeta.
    Rappresentazione schematica della carriera di ERS-2 nello Spazio (ESA)
    Quando furono lanciati nella prima metà degli anni Novanta, ERS-1 ed ERS-2 contenevano alcune delle tecnologie più avanzate disponibili all’epoca per l’osservazione e lo studio della Terra. I sensori di ERS-2 permisero di effettuare in modo più accurato la misurazione della temperatura superficiale del suolo e degli oceani, raccogliendo dati fondamentali per la costruzione dei modelli per lo studio del cambiamento climatico. ERS-2 fu anche molto importante per osservare l’assottigliamento dello strato di ozono in alcune parti dell’atmosfera, il cosiddetto “buco nell’ozono”, così come per analizzare alcuni andamenti atmosferici per migliorare l’affidabilità delle previsioni meteorologiche.
    Nel corso dei suoi 16 anni di utilizzo, ERS-2 fu inoltre impiegato per analizzare gli effetti di alcuni disastri naturali, come grandi inondazioni su alcune porzioni di territorio, e per studiare la salute delle foreste e identificare i casi di deforestazione illegale. Insieme a ERS-1, rese possibili oltre 5mila progetti scientifici e i dati raccolti in quegli anni sono ancora oggi preziosi per studiare andamenti e variazioni al suolo, negli oceani e nell’atmosfera.
    Lo stretto di Messina ripreso in varie date da ERS-2 (ESA)
    Per questi motivi ERS-1 ed ERS-2 sono considerati «i pionieri europei dell’osservazione della Terra» e le conoscenze accumulate con il loro sviluppo, e il loro utilizzo, ha reso poi possibile la produzione di satelliti di nuova generazione. Nel marzo del 2002 l’Agenzia spaziale europea inviò in orbita Envisat, un satellite che conteneva strumenti sperimentati nel programma ERS e aggiornati con nuove funzionalità. Alcuni dei sensori impiegati su ERS-2 avrebbero poi reso possibile il perfezionamento di strumenti molto importanti per valutare le variazioni nella conformazione del territorio (InSAR), oggi impiegati da Copernicus, l’iniziativa satellitare europea per lo studio della Terra.
    A differenza di ERS-2, ERS-1 smise di rispondere ai comandi prima di poter essere collocato a una quota che garantisse la sua fine nell’atmosfera entro pochi anni. Attualmente il satellite si trova a 700 chilometri di distanza dalla Terra e potrebbe impiegare fino a un secolo prima di raggiungere nuovamente il nostro pianeta.
    Difficilmente oggi si potrebbe verificare un imprevisto di questo tipo, per lo meno con i satelliti sotto la responsabilità dell’ESA. L’Agenzia ha infatti adottato nel 2022 il “Zero Debris Charter”, un trattato che prevede numerosi vincoli nella realizzazione e nella gestione dei satelliti, proprio per ridurre il problema dei rifiuti spaziali. L’ESA si è impegnata a utilizzare satelliti che possano essere manovrati per essere spostati in orbite che ne assicurino la fine nell’atmosfera, dove si potranno polverizzare senza causare problemi. Il trattato prevede inoltre che non passino più di cinque anni dal momento in cui un satellite viene disattivato al momento in cui viene distrutto.
    In quasi 70 anni di attività spaziali, sono stati trasportati in orbita migliaia di satelliti, molti dei quali non sono più funzionanti. Mentre i satelliti più recenti hanno spesso sistemi per modificare la loro orbita quando non servono più, in modo che si disintegrino al loro rientro nell’atmosfera o per essere parcheggiati in orbita a debita distanza dal nostro pianeta, i satelliti più vecchi sono impossibili da controllare dalla Terra e non possono essere smaltiti.
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    La presenza di così tanti detriti spaziali fa aumentare sensibilmente il rischio di collisioni con satelliti attivi. Incidenti di questo tipo possono portare alla produzione di nuovi detriti, che a loro volta diventano rifiuti spaziali rischiosi per altri satelliti e così via.
    Alla fine degli anni Settanta, il consulente della NASA Donald J. Kessler ipotizzò che un tale effetto domino potesse portare ad avere talmente tanti detriti nell’orbita bassa intorno alla Terra (a una quota tra 300 e 1.000 chilometri) da rendere impossibile l’esplorazione spaziale e l’impiego di nuovi satelliti per generazioni. La “sindrome di Kessler” viene evocata sempre più di frequente come un rischio da esperti e responsabili delle agenzie spaziali, che da anni lavorano alla sperimentazione di sistemi per ridurre la quantità di rifiuti spaziali intorno alla Terra. LEGGI TUTTO

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    Dopo 878 giorni, Oleg Kononenko ha stabilito il nuovo record di permanenza nello Spazio in più missioni

    L’Agenzia spaziale russa (Roscosmos) ha reso noto che il cinquantanovenne cosmonauta russo Oleg Kononenko ha stabilito domenica il nuovo record di permanenza di un essere umano nello Spazio nel corso di più missioni, trascorrendo in orbita più di 878 giorni; il record precedente apparteneva al cosmonauta russo Gennady Padalka.Kononenko, da settembre scorso in missione sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS), dovrebbe raggiungere un totale di mille giorni nello spazio il 5 giugno. Ed entro la fine di settembre potrebbe averne accumulati in totale 1.110. «Sono orgoglioso di tutti i miei successi, ma sono ancora più orgoglioso del fatto che il record per la durata totale della permanenza umana nello Spazio resti di un cosmonauta russo», ha detto Kononenko all’agenzia di stampa russa TASS.
    Anche il record mondiale di permanenza ininterrotta di un essere umano nello Spazio appartiene a un cosmonauta russo: lo stabilì nel 1995 Valeri Polyakov, che rimase nello Spazio per 437 giorni a bordo della stazione spaziale russa Mir. LEGGI TUTTO

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    E se fossimo lo “zoo” di una specie aliena?

    Nel 1973, in un articolo intitolato L’ipotesi dello zoo, pubblicato sulla rivista di scienze planetarie Icarus, l’astrofisico della Harvard University John Allen Ball teorizzò che l’assenza di interazioni con forme di vita intelligente extraterrestre, ammesso che esistano, fosse spiegabile ipotizzando una loro volontà di rimanere nascoste. In pratica civiltà extraterrestri più evolute e antiche della nostra eviterebbero deliberatamente qualsiasi interazione, rendendo la parte dell’Universo in cui viviamo una sorta di area protetta. «L’ipotesi dello zoo prevede che non li troveremo mai perché non vogliono essere trovati, e hanno la capacità tecnologica di assicurarsene», scrisse Ball.L’ipotesi di Ball, che in seguito lavorò all’osservatorio Haystack del Massachusetts Institute of Technology fino alla pensione, nel 2006, è la stessa alla base di diverse storie di fantascienza, raccontate anche molto prima che lui la formulasse nel 1973. Ma per quanto bizzarra possa apparire, è una delle molte ipotesi di spiegazione del cosiddetto paradosso di Fermi: un dibattito in corso da oltre settant’anni sulla discrepanza tra le alte aspettative di vita intelligente extraterrestre e l’assenza di qualsiasi prova a sostegno. L’ipotesi dello zoo è stata recentemente ripresa in un articolo pubblicato sul numero di gennaio della rivista Nature Astronomy.
    Scritto dall’astrobiologo inglese Ian Andrew Crawford e dall’astrofisico tedesco Dirk Schulze-Makuch, l’articolo esamina alcuni dei più noti tentativi di spiegazione del paradosso di Fermi proposti nel corso degli anni. Suggerisce che le civiltà tecnologiche extraterrestri siano estremamente rare (o assenti) nella galassia, o esistano ma si nascondano da noi. E conclude che, considerando il nostro impegno nella continua esplorazione dello Spazio, potremmo essere in grado di escludere una delle due possibilità in un futuro non troppo lontano: qualche decennio.
    Crawford è un professore di scienze planetarie e astrobiologia alla Birkbeck University of London: si è occupato a lungo di esplorazioni lunari, ha lavorato con l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e nel 2023 ha ricevuto dalla NASA il premio “Michael J. Wargo”, assegnato a scienziati che si siano distinti per la ricerca nel campo dell’esplorazione spaziale. Schulze-Makuch è un professore del centro di astronomia e astrofisica dell’Università Tecnica di Berlino e professore a contratto del dipartimento di scienze della Terra e dell’ambiente della Washington State University ed è noto soprattutto per le sue pubblicazioni sulla vita extraterrestre, tra cui il libro del 2017 The cosmic zoo: complex life on many worlds.
    Il paradosso di Fermi prende il nome da un aneddoto secondo cui nel 1950 il famoso scienziato italiano Enrico Fermi, premio Nobel per la fisica nel 1938, a un certo punto disse «Dove sono tutti quanti?» in una conversazione sulla mancanza di prove di vita extraterrestre. Lo chiese mentre era a pranzo con altri scienziati durante una visita a Los Alamos (la città del New Mexico sede del centro di ricerca che aveva sviluppato la prima bomba atomica statunitense).

    – Leggi anche: Robert Oppenheimer, il “padre dell’atomica”

    La domanda attribuita a Fermi, scrivono Crawford e Schulze-Makuch, può essere considerata un paradosso soltanto se si presuppone che esistano forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute: se non esistono, non c’è alcun paradosso. La possibilità che non esistano tende tuttavia a essere difficile da ammettere per moltissime persone: probabilmente, secondo Crawford e Schulze-Makuch, perché è vista come una violazione del principio copernicano secondo cui né la Terra né l’umanità sono in una posizione di privilegio nell’Universo. La recente scoperta di esopianeti potenzialmente abitabili in sistemi solari diversi dal nostro ha ulteriormente rafforzato una certa diffusa convinzione che possano esistere forme di vita su altri mondi.
    L’esopianeta Ross 128 b, in orbita attorno alla stella Ross 128 a circa 11 anni luce dal Sole, in una rappresentazione dell’Osservatorio europeo australe (M. Kornmesser/ESO via AP)
    Tra gli anni Settanta e Ottanta il dibattito sul paradosso di Fermi fu approfondito in particolare negli Stati Uniti dall’astrofisico Michael Hart e dal fisico e matematico Frank J. Tipler. La maggior parte dei tentativi di spiegare il paradosso, secondo Hart, rientra in tre grandi categorie: spiegazioni fisiche, temporali e sociologiche.
    Le spiegazioni fisiche suggeriscono che i viaggi interstellari siano impossibili, a causa delle distanze siderali e delle enormi quantità di energia eventualmente richiesta per raggiungere una velocità vicina a quella della luce (quasi 300mila km al secondo). Ma per quanto difficile sul piano ingegneristico, scrisse Hart, compiere viaggi spaziali di questo tipo per una civiltà tecnologicamente molto evoluta non sarebbe fisicamente impossibile. Come ipotizzato in seguito da Tipler, che su questo era d’accordo con Hart, non è nemmeno possibile escludere che alcune civiltà dispongano di speciali mezzi spaziali auto-replicanti, in grado di viaggiare nello Spazio e nel frattempo creare copie di sé stessi, spostandosi di pianeta in pianeta.
    Le spiegazioni temporali fanno invece riferimento all’età della Via Lattea, la galassia in cui si trova il nostro sistema solare: circa 13 miliardi di anni. Secondo i sostenitori di questa spiegazione, è un tempo così lungo da rendere molto basse le probabilità di una coesistenza di più forme di vita intelligenti nello stesso momento, a meno che non siano estremamente longeve o estremamente diffuse nell’Universo. Ma nemmeno questa è una spiegazione plausibile, secondo Hart: perché almeno una civiltà, tra quelle con sufficienti possibilità tecnologiche e con l’intenzione di farlo, avrebbe potuto visitare e potenzialmente colonizzare pianeti abitabili della Galassia in un lasso di tempo più breve rispetto all’età complessiva della Galassia.
    Pur non potendo sapere con certezza se forme di vita extraterrestre abbiano visitato oppure no la Terra milioni o miliardi di anni fa, scrisse Hart, il filo ininterrotto dell’evoluzione biologica sulla Terra permette di escludere che sia stata «colonizzata»: vedremmo altrimenti tracce di questo condizionamento nella nostra stessa evoluzione. E il fatto che non ci siano prove di un’interferenza di questo tipo in circa 4 miliardi di storia della Terra lascia supporre che eventuali interazioni con il nostro pianeta, ammesso che ci siano state, siano in ogni caso un evento rarissimo.
    Restano le spiegazioni sociologiche, cioè quelle molto speculative che fanno riferimento a ipotetici comportamenti delle forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute, soltanto immaginabili. Spiegazioni del genere comprendono l’ipotesi che le civiltà esauriscano le loro risorse energetiche prima di potersi fare vive nell’Universo, per esempio, o che non abbiano alcun desiderio di estendere la loro influenza oltre l’area in cui si sono sviluppate. Il problema fondamentale di queste spiegazioni è che possono risolvere il paradosso solo ammettendo che un determinato comportamento sia comune a tutte le forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute nella storia della Galassia. Che è però una condizione la cui plausibilità, per ragioni di distribuzione di probabilità, diminuisce al crescere del numero di forme di vita di cui siamo disposti a ipotizzare l’esistenza.
    Le spiegazioni sociologiche del paradosso, in sostanza, funzionano soltanto se immaginiamo che le forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute siano rare. Ma in quel caso non ci sarebbe alcun paradosso da spiegare, perché i «tutti quanti» della domanda attribuita a Fermi sarebbero, in definitiva, molto pochi.

    – Leggi anche: Se esistono, perché non si fanno vivi?

    L’idea condivisa da Hart e Tripler sulla base delle loro considerazioni, anche nota come congettura di Hart-Tripler, è che l’assenza di prove di un’interazione di qualsiasi tipo con una civiltà extraterrestre sia più facilmente spiegabile, rispetto a qualsiasi altra spiegazione, attraverso l’ipotesi che non esistano civiltà extraterrestri abbastanza evolute nella nostra galassia. In un celebre articolo pubblicato nel 1983 e intitolato The Solipsist Approach to Extraterrestrial Intelligence l’astronomo e divulgatore scientifico Carl Sagan e il fisico William Newman suggerirono tuttavia un approccio più prudente e paziente alla questione del paradosso di Fermi, affermando che «l’assenza di prove non è prova dell’assenza».
    Esiste del resto un certo ottimismo crescente riguardo alla possibilità che altri mondi diversi dal nostro possano ospitare qualche forma di vita: mondi troppo distanti per pensare di poterli raggiungere, ma che possono comunque essere studiati per cercare eventuali “firme biologiche”, cioè sostanze o fenomeni che possono rivelare la presenza della vita. Diverso è il discorso per le “firme tecnologiche”, che per loro natura dovrebbero essere più facilmente rilevabili e meno ambigue di quelle biologiche, ma rispetto alle quali percepiamo nell’Universo solo un «grande silenzio», come lo definì nel 1983 l’astronomo statunitense e scrittore di fantascienza Glen Brin.
    Secondo Crawford e Schulze-Makuch, autori del recente articolo su Nature Astronomy, il grande silenzio può significare prima di tutto che l’ipotesi di Hart e Tipler sull’inesistenza di civiltà extraterrestri tecnologicamente evolute fosse corretta. O tuttalpiù che quelle civiltà siano molto rare nell’Universo – e assenti, dal nostro punto di vista – a causa di limiti di qualche tipo che ne ostacolano lo sviluppo o la manifestazione. È una possibilità nota anche come teoria del “grande filtro”, definita negli anni Novanta dall’economista e ricercatore statunitense della University of Oxford Robin Hanson, ma in parte ammessa anche da Hart già nel 1975.
    Se nessuna di queste due ipotesi fosse corretta, secondo Crawford e Schulze-Makuch, l’assenza di prove dell’esistenza di civiltà extraterrestri tecnologicamente evolute potrebbe a quel punto avere un’altra sola spiegazione, del tipo sociologico: l’ipotesi dello zoo. Eventuali civiltà si terrebbero cioè a distanza di proposito, per evitare di essere rilevate, sebbene non sia chiaro con quali motivazioni.

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    Già prima che Ball ne scrivesse su Icarus nel 1973, l’idea alla base dell’ipotesi dello zoo era stata citata dallo scrittore inglese Olaf Stapledon nel romanzo del 1937 Il costruttore di stelle. Era inoltre stata resa familiare fin dalla seconda metà degli anni Sessanta dalla serie televisiva Star Trek, nel cui universo immaginario la Prima direttiva vieta ai pianeti della Federazione di interferire nello sviluppo naturale di civiltà aliene, per evitare a quelle ancora impreparate i pericoli di un’eventuale introduzione esterna della tecnologia dei viaggi interstellari. In tempi più recenti una specie di ipotesi dello zoo è stata ripresa anche dallo scrittore cinese di fantascienza Liu Cixin, il cui romanzo La materia del cosmo immagina l’Universo come una «foresta oscura» abitata da feroci predatori che si nascondono per ragioni di sopravvivenza.
    Un modellino della USS Enterprise, un’astronave immaginaria dell’universo di Star Trek, a una mostra alla casa d’aste Christie’s a Londra, il 2 agosto 2006 (Bruno Vincent/Getty Images)
    Come ha recentemente detto Crawford al sito Universe Today, «esistono due sole possibilità: o le intelligenze extraterrestri esistono, o no». Entrambe le risposte sarebbero sorprendenti, ma soltanto una delle due può essere vera. Al momento l’unica certezza che abbiamo, ha detto, è l’assenza di prove di quel tipo di forme di vita, nonostante la quantità incalcolabile di pianeti e nonostante l’età dell’Universo: una discrepanza che è alla base del paradosso di Fermi, appunto.
    Per rafforzare il paradosso, Crawford e Schulze-Makuch hanno citato alcuni recenti modelli dei possibili processi di evoluzione della vita secondo cui l’abitabilità nella Galassia sarebbe sostanzialmente aumentata soltanto negli ultimi miliardi di anni. Anche in un caso del genere, secondo loro, i tempi necessari per l’evoluzione di una civiltà e quelli plausibilmente necessari per una colonizzazione interstellare sarebbero molto più brevi rispetto all’evoluzione della Galassia: così tanto più brevi che dovremmo comunque aspettarci che più civiltà tecnologiche siano sorte prima della nostra.
    «Ci sono voluti circa due miliardi di anni prima che la Terra sviluppasse un’atmosfera ricca di ossigeno che consentisse agli animali complessi di evolversi. Se ciò fosse successo solo l’1 per cento più velocemente su qualche altro pianeta, cosa possibile a causa di una moltitudine di processi biologici e geologici, un’intelligenza tecnologica sarebbe presumibilmente apparsa 20 milioni di anni prima di noi», hanno scritto Crawford e Schulze-Makuch. Se accettiamo quindi che esistano intelligenze extraterrestri e accettiamo che siano tecnologicamente in grado di raggiungere sistemi stellari diversi da quelli in cui si sono sviluppate, la totale mancanza di prove della loro esistenza si spiegherebbe secondo Crawford e Schulze-Makuch soltanto con una loro volontà di rimanere nascoste.
    Una delle critiche all’ipotesi dello zoo riguarda il principale limite di tutte le spiegazioni sociologiche: la scarsa probabilità che uno stesso comportamento sia condiviso per centinaia di milioni di anni da tutte le eventuali forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute. Come osservato dall’astrofisico scozzese Duncan Forgan, membro fondatore del programma SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence) nel Regno Unito, basterebbe un singolo gruppo di dissidenti in un’eventuale civiltà aliena, oppure l’esistenza di «cricche galattiche» indipendenti anziché un singolo gruppo conforme, per ottenere un comportamento divergente rispetto al presupposto dell’ipotesi dello zoo: che ogni civiltà tecnologicamente evoluta si stiano nascondendo.
    Altri scienziati affermano in generale che l’ipotesi dello zoo, benché potenzialmente corretta, sia inutile in un senso scientifico pratico e più vicina a un modo di pensare teologico. Per questo motivo sostengono che nel campo delle spiegazioni sociologiche del paradosso di Fermi siano più meritevoli di attenzione altre ipotesi, come quella dell’esaurimento delle risorse o quella dell’autodistruzione.

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    Rispetto a queste obiezioni note Crawford e Schulze-Makuch sostengono che le ridotte probabilità che uno stesso comportamento sia unanimemente condiviso da più intelligenze extraterrestri non nega di per sé l’ipotesi dello zoo. Riduce piuttosto la probabilità che quelle intelligenze in grado di manifestarsi ma non intenzionate a farlo siano molte. Quanto alla critica riguardo all’approccio teologico, l’opinione di Crawford e Schulze-Makuch è che l’ipotesi dello zoo sia molto diversa da altre teorie puramente speculative, come l’ipotesi del planetario dello scrittore e matematico inglese Stephen Baxter, secondo cui le nostre osservazioni sarebbero un’illusione generata da una civiltà in grado di manipolare la materia e l’energia su scala galattica.
    La differenza fondamentale, ha spiegato Schulze-Makuch a Universe Today, è che «se viviamo in una sorta di simulazione, potremmo non scoprirlo mai», mentre possiamo invece scoprire se l’ipotesi dello zoo sia corretta oppure no. Man mano che le nostre capacità tecnologiche aumentano, potrebbero infatti raggiungere o superare quelle di eventuali altre civiltà che sarebbero a quel punto non più in grado di nascondere ogni loro traccia.
    Sebbene Schulze-Makuch sia un po’ più possibilista rispetto a Crawford, in generale l’ipotesi dello zoo è un argomento utilizzato da entrambi per sostenere soprattutto l’altra possibilità: che non esistano intelligenze extraterrestri tecnologicamente evolute, oppure che siano molto rare. Nell’articolo scrivono che «se non riusciamo a identificare soluzioni plausibili al paradosso di Fermi, con la possibile eccezione dell’ipotesi dello zoo, ne consegue che o la vita stessa è rara e/o esistono colli di bottiglia tra l’origine della vita e l’avvento della tecnologia». Dal momento che l’esistenza di pianeti potenzialmente abitabili sembra più probabile rispetto a qualche decennio fa, per spiegare «dove sono tutti quanti» dovremmo prendere in considerazione l’esistenza di una serie di “grandi filtri” evolutivi che complicano o ostacolano la transizione dall’origine della vita (abiogenesi) alla civiltà tecnologica.
    Ulteriori approfondimenti riguardo all’eventuale esistenza di intelligenze extraterrestri, concludono Crawford e Schulze-Makuch, potranno derivare soltanto da un’esplorazione sistematica dell’Universo. La ricerca di firme biologiche in esopianeti a noi vicini potrebbe entro i prossimi decenni limitare le probabilità sia della complessità biologica che delle intelligenze: perché se dovessimo scoprire che le biosfere extraterrestri sono rare, allora le intelligenze lo saranno presumibilmente ancora di più. E questo indebolirebbe progressivamente il paradosso di Fermi: non avremmo prove perché non esistono.
    Se invece dovessimo scoprire che le biosfere complesse sono comuni in almeno una parte dell’Universo da noi osservata, allora la vita tecnologica potrebbe comunque essere rara a causa di filtri evolutivi difficili da superare. In assenza di filtri, l’ipotesi dello zoo resterebbe l’ultima plausibile: ma a un certo punto anche questa potrebbe essere verificata. «Se si nascondono attivamente da noi, potrebbero trovare difficoltà sempre maggiori di fronte alle nostre stesse capacità in rapido aumento», osservano Crawford e Schulze-Makuch. E se anche quelle civiltà riuscissero a nascondere le prove della loro tecnologia, alla lunga sarebbe per noi difficile non osservare il gran numero di pianeti abitati, implicito in uno scenario del genere.
    Altre ragioni che indeboliscono l’ipotesi che civiltà tecnologiche possano a lungo rimanere nascoste è che quelle dotate di grandi riserve energetiche avrebbero comunque difficoltà a nascondere tutti i segni degli effetti termodinamici della produzione di calore di scarto: segni che sono infatti alla base di alcune attuali ricerche di firme tecnologiche. È inoltre molto probabile che civiltà in grado di viaggiare nello Spazio generino grandi quantità di detriti spaziali, e maggiore è il numero di civiltà di questo tipo esistite nella storia della Galassia, maggiori saranno la quantità di detriti che finiranno nel Sistema Solare e le probabilità di scoprirne le prove.
    La conclusione di Crawford e Schulze-Makuch è che «più a lungo non rileviamo alcun segno di vita intelligente avanzata intorno a noi, meno probabile diventa la spiegazione dell’ipotesi dello zoo, costringendoci a concludere che la vita intelligente tecnologica è rara nell’Universo». LEGGI TUTTO

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    Il lander giapponese SLIM sulla Luna ha ripreso a funzionare

    L’Agenzia spaziale giapponese (JAXA) ha fatto sapere che il veicolo spaziale (lander) SLIM che era arrivato sulla Luna venerdì 19 gennaio ha ripreso a funzionare. Dopo la riuscita dell’allunaggio erano emersi parecchi dubbi sulla possibilità che SLIM potesse continuare a funzionare, dato che i pannelli solari del lander avevano smesso di generare energia elettrica e di conseguenza non potevano caricarne le batterie. Domenica JAXA ha detto di essere riuscita a ristabilire le comunicazioni con il lander, quasi nove giorni dopo l’allunaggio. Secondo l’Agenzia spaziale giapponese probabilmente il lander è stato in grado di tornare a generare energia non appena la luce del Sole lo ha illuminato.Per l’allunaggio il lander (il cui nome è un acronimo per Smart Lander for Investigating Moon) aveva utilizzato un sistema di navigazione autonomo ad alta precisione. Era stato lanciato il 6 settembre 2023 dal Giappone e aveva poi trascorso alcuni mesi per avvicinarsi alla Luna ed entrare in un’orbita intorno al nostro satellite naturale il 25 dicembre scorso. In seguito aveva compiuto alcune manovre per predisporre l’attività di discesa sulla superficie. Intorno alle 16 italiane del 19 gennaio SLIM aveva acceso i motori per rallentare la propria velocità, sganciarsi dall’orbita e iniziare a perdere quota. I suoi sistemi di navigazione automatici avevano poi localizzato il punto scelto in precedenza per l’allunaggio e avevano controllato il lander per evitare collisioni con eventuali ostacoli lungo la traiettoria.

    Communication with SLIM was successfully established last night, and operations resumed! Science observations were immediately started with the MBC, and we obtained first light for the 10-band observation. This figure shows the “toy poodle” observed in the multi-band observation. pic.twitter.com/WYD4NlYDaG
    — 小型月着陸実証機SLIM (@SLIM_JAXA) January 29, 2024 LEGGI TUTTO

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    L’elicottero della NASA Ingenuity ha concluso la sua missione su Marte

    Il piccolo elicottero sperimentale Ingenuity della NASA, l’agenzia spaziale statunitense, ha concluso la sua missione su Marte dopo tre anni. Ingenuity era arrivato su Marte insieme al rover Perseverance il 18 febbraio del 2021, e nell’aprile successivo era diventato il primo elicottero costruito sulla Terra a volare su un altro pianeta.La missione iniziale di Ingenuity (che vuol dire “ingegno” in inglese) era di effettuare 5 voli in 30 giorni. Aveva però superato le aspettative della NASA, e alla fine aveva compiuto 72 voli in tre anni. Aveva effettuato l’ultimo volo la settimana scorsa, ma aveva riportato danni irreparabili a una pala del rotore. Per questo motivo la NASA ha deciso di dichiarare ufficialmente conclusa la missione del piccolo elicottero. «Lo storico viaggio di Ingenuity, il primo veicolo a volare su un altro pianeta, è finito», ha detto l’amministratore della NASA Bill Nelson. «Quell’eccezionale elicottero ha volato più in alto e più lontano di quanto avessimo mai immaginato e ha aiutato la NASA a fare ciò che fa meglio: rendere l’impossibile possibile».
    Ingenuity ha una massa di circa 1,8 chilogrammi, ma su Marte risulta circa 2,5 volte più leggero che sulla Terra a causa della minore gravità. È alto poco meno di mezzo metro, e ricorda i droni telecomandati che utilizziamo qui per fare le riprese dall’alto. Per decollare e mantenersi in volo, Ingenuity utilizzava due coppie di pale con una lunghezza di 1,2 metri. Una coppia ruotava in senso orario e l’altra in senso antiorario, compiendo all’incirca 2.400 giri al minuto. LEGGI TUTTO