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    Iniziamo a capire qualcosa di più sul mercurio nei tonni

    Un’ampia ricerca da poco pubblicata sull’inquinamento da mercurio nei mari ha segnalato che in alcuni pesci – in particolare il tonno – la concentrazione di questo metallo è rimasta pressoché invariata dagli anni Settanta nonostante varie iniziative e un trattato per ridurre la sua dispersione nell’ambiente. La presenza del mercurio nel pesce può costituire un rischio nella fase di sviluppo del feto durante la gravidanza, ma può avere anche effetti sulla salute delle persone adulte. Secondo la ricerca, anche applicando più rigidamente i regolamenti internazionali potrebbero essere necessari decenni prima di rilevare una riduzione della concentrazione di mercurio nel tonno, tra i pesci più consumati al mondo.Mercurio e metilmercurioQuello che viene definito comunemente “mercurio nei mari” è in realtà il metilmercurio (o per meglio dire catione monometilmercurio), un composto che contiene un legame metallo-carbonio ed è quindi “metallorganico” (il carbonio è centrale nella produzione di composti organici e per la vita). Come suggerisce il nome, questa sostanza si forma a partire dal metallo attraverso l’attività di alcuni batteri anaerobi, cioè che vivono in assenza di ossigeno, e di altri microrganismi presenti soprattutto in laghi, fiumi, mari e sedimenti nelle zone umide. Più il mercurio è presente nell’ambiente, maggiore è la probabilità che una sua parte significativa venga trasformata in metilmercurio.
    Il mercurio si accumula nell’ambiente sia per fenomeni naturali, come l’attività dei vulcani e gli incendi stagionali nelle foreste, sia a causa dell’attività umana in particolare tramite la combustione dei combustibili fossili e in alcuni processi industriali, per esempio per la preparazione dell’acetaldeide, impiegata in alcuni fertilizzanti, nei solventi e in numerosi altri prodotti chimici.
    Fu proprio la produzione di acetaldeide a portare a una maggiore consapevolezza e sensibilizzazione sui rischi legati alle contaminazioni di mercurio, dopo il disastro ambientale scoperto a Minamata, una città nell’estremo occidente del Giappone. Tra gli anni Trenta e la fine degli anni Sessanta del secolo scorso un’industria chimica sversò nelle acque di scarico grandi quantità di metilmercurio che si accumulò in numerose specie marine, entrando poi nella catena alimentare e causando l’avvelenamento da mercurio di molte persone che abitavano nella zona. L’intossicazione fu tale da portare alla scoperta della cosiddetta “sindrome di Minamata”, una malattia che causa gravi problemi al sistema nervoso e che in alcuni casi può essere mortale.
    Il disastro di Minamata e alcuni altri casi simili portarono alla Convenzione di Minamata sul mercurio, un trattato internazionale adottato nel 2013 da circa 140 paesi per limitare le emissioni di mercurio e dei suoi composti nell’ambiente. La Convenzione è dedicata in particolare alla preservazione degli ambienti marini, dove soprattutto il metilmercurio tende a causare contaminazioni su larga scala all’interno della catena alimentare.
    Salute e alimentazioneIl metilmercurio ha un tempo di permanenza negli organismi relativamente lungo, di conseguenza attraversa buona parte della catena alimentare degli ambienti marini (“bioamplificazione”). Batteri e plancton contaminati diventano il cibo dei pesci più piccoli, che diventano quindi un pasto contaminato per i pesci più grandi e così via fino alle specie ittiche di maggiori dimensioni. Ciò determina un aumento della concentrazione di metilmercurio man mano che aumenta la stazza dei pesci, in particolare di quelli predatori. Molte specie ittiche vengono consumate da altri animali, come gli uccelli o gli esseri umani, che finiscono a loro volta con l’ingerire quella sostanza.
    Rappresentazione schematica della bioamplificazione del metilmercurio (Wikimedia)
    La concentrazione del metilmercurio nei pesci varia a seconda delle specie, della loro stazza, della loro età e naturalmente del luogo in cui sono cresciuti, che potrebbe essere più o meno contaminato. In una stessa specie, i pesci più anziani hanno in proporzione più metilmercurio di quelli più giovani, semplicemente perché sono stati esposti più a lungo a questa sostanza che impiega molto tempo per essere smaltita. Il metilmercurio ha infatti un’emivita intorno ai due mesi e mezzo nelle specie acquatiche: significa che la sua concentrazione si dimezza in quel periodo (dopo 2,5 mesi è metà, dopo altri 2,5 mesi è metà della metà e così via). I pesci in cui sono solitamente riscontrate le maggiori concentrazioni sono i pesci spada, gli squali e i tonni di grandi dimensioni e più anziani.
    Quando si mangia pesce contenente metilmercurio, questo viene assorbito dal sistema digerente e passa nella circolazione sanguigna, attraverso la quale si distribuisce in buona parte dell’organismo, compreso il sistema nervoso. La sua emivita nel sangue è di 50 giorni, ma è raro che con una normale alimentazione si raggiungano livelli da grave intossicazione, come avvenne per esempio a Minamata dove le concentrazioni erano molto alte.
    Le caratteristiche organiche del metilmercurio fanno sì che riesca a legarsi fortemente alle proteine, rendendo quindi più difficile la sua eliminazione da parte dell’organismo. Durante la gravidanza può avvenire il trasferimento al feto del metilmercurio assunto con l’alimentazione e sopra una certa soglia possono esserci rischi, legati per esempio a un minore sviluppo del sistema nervoso centrale; nelle persone adulte possono esserci maggiori rischi di sviluppare disturbi cardiovascolari.
    Stabilire limiti per il metilmercurio non è semplice e ancora oggi le soglie da stabilire sono piuttosto discusse tra gli esperti. L’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) ha indicato una «dose tollerabile di assunzione» di 1,3 microgrammi per chilogrammo di massa corporea. È un indicazione che può apparire un poco criptica, considerato che nel momento in cui si consuma un piatto di pesce non si può sapere quale sia l’effettiva concentrazione (per il comparto alimentare ci sono comunque livelli massimi indicati nel regolamento dell’Unione Europea 2023/915). Per questo l’EFSA ha fornito indicazioni un poco più approssimative, ma utili nella vita di tutti i giorni.
    Il consiglio dell’EFSA, in linea con quelli di altre autorità ambientali e sanitarie in giro per il mondo, è di consumare pesce tra le due e le tre volte alla settimana, cercando di variare il più possibile i tipi di pesce e limitando il consumo di quelli di taglia medio-grande, che potrebbero avere un maggior contenuto di metilmercurio come pesci spada, naselli e tonni. Maggiori attenzioni dovrebbero essere mantenute per i bambini e dalle donne nel periodo della gravidanza, ma in generale l’EFSA invita comunque a mangiare pesce perché i suoi nutrienti sono comunque importanti nella fase della crescita e in età adulta. Come per molte altre cose che riguardano l’alimentazione, la questione di fondo è trovare un equilibrio tollerabile tra i rischi e i benefici portati dal consumo di un certo alimento.
    Emissioni e concentrazioneLe maggiori attenzioni portate dalla Convenzione di Minamata hanno contribuito negli ultimi decenni a ridurre la presenza di nuovo mercurio e nuovo metilmercurio negli ambienti marini, ma le analisi indicano che c’è comunque un certo accumulo che richiederà del tempo per essere smaltito. Lo studio, da poco pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Science & Technology Letters, ha riguardato ricerche pubblicate nei decenni scorsi e nuovi dati che insieme hanno permesso di avere a disposizione analisi su quasi 3mila campioni di tonni, raccolti tra gli oceani Pacifico, Atlantico e Indiano negli ultimi 50 anni, con particolare attenzione ai tipi di tonno più pescati e consumati (tonno pinne gialle, tonno obeso e tonno skipjack).
    Dalle analisi è emerso che nonostante una riduzione nelle emissioni di mercurio a partire dagli anni Settanta, i livelli di metilmercurio nel tonno sono rimasti sostanzialmente invariati. Secondo la ricerca, la causa è probabilmente il modo in cui gli accumuli di metilmercurio si sono distribuiti nelle acque oceaniche. Il moto ondoso e la differenza di temperatura nell’acqua fa sì che in alcune circostanze questa sostanza raggiunga profondità meno basse, dove vivono i pesci che diventano poi prede dei tonni. Il processo non è però completamente chiaro, ma evidenzia una certa inerzia del sistema legata alle grandi quantità di mercurio accumulate nei secoli passati sia naturalmente sia in seguito alle emissioni derivanti dalle attività umane.
    Anche se i livelli di metilmercurio non sono diminuiti (nel caso del tonno skipjack c’è stato un lieve aumento, probabilmente dovuto alle maggiori emissioni di mercurio in Asia), c’è comunque una notizia incoraggiante: nessuno dei campioni analizzati ha fatto registrare concentrazioni superiori ai limiti per il consumo del tonno. Lo studio segnala comunque che le emissioni di mercurio dovranno essere ridotte molto di più per vedere una riduzione nella concentrazione di mercurio negli oceani nei prossimi 10-25 anni. A quel punto, per rilevare una riduzione nella concentrazione di metilmercurio nella carne del tonno e di altri pesci predatori potrebbero essere necessari diversi altri decenni. LEGGI TUTTO

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    Il cervello cambia durante il ciclo mestruale

    Caricamento playerPer una parte delle donne i giorni vicini alle mestruazioni sono associati a sbalzi d’umore e maggiore emotività e irritabilità, per cui è piuttosto noto che ci siano relazioni tra gli ormoni che regolano il ciclo mestruale e il cervello. Sappiamo anche che il cervello è pieno di recettori che reagiscono agli ormoni, compresi quelli che non c’entrano nulla con ovulazioni e mestruazioni. Tuttavia le ricerche su cosa succeda nelle diverse fasi del ciclo a livello dei neuroni sono ancora molto carenti, e tra le altre cose non si sa come mai certe donne sperimentino notevoli variazioni di umore e altre no.
    Di recente però due diversi studi hanno ampliato le conoscenze in questo ambito grazie a una serie di risonanze magnetiche cerebrali praticate su più di 50 giovani donne in buona salute durante diversi momenti dei loro cicli mestruali. Entrambi dicono che alcune regioni del cervello si modificano significativamente durante le fasi del ciclo. Per il momento non sappiamo se a questi cambiamenti fisici corrispondano variazioni nelle funzioni del cervello, negli stati emotivi o eventualmente nelle capacità cognitive, ma sapere che cervelli adulti possono cambiare «in modo super veloce», per dirla come Julia Sacher, tra le neuroscienziate autrici di uno dei due studi, è già un notevole progresso.
    Il ciclo mestruale è la sequenza di fasi periodiche che avvengono fisiologicamente nell’apparato riproduttivo femminile in età fertile, cioè più o meno tra i 12 e i 50 anni, e coinvolgono principalmente l’utero e le ovaie. Ogni mese la mucosa interna dell’utero, l’organo che può ospitare eventuali gravidanze, si modifica per accogliere un ovulo proveniente dalle ovaie (ovulazione). Spesso colloquialmente si usa l’espressione “ciclo” per indicare le mestruazioni, cioè il momento in cui la mucosa dell’utero (endometrio), se non è iniziata una gravidanza, perde la sua parte più superficiale, che viene espulsa come sangue e tessuti attraverso la vagina.
    Convenzionalmente il ciclo inizia il primo giorno di mestruazioni. Le mestruazioni durano dai 2 agli 8 giorni nella maggior parte dei casi e avvengono in contemporanea con l’inizio della prima fase del ciclo, la fase follicolare. Complessivamente dura circa 13-14 giorni: è la fase in cui all’interno delle ovaie si sviluppano vari follicoli, cioè sacche di liquido contenenti un ovulo ciascuna. Nella successiva fase ovulatoria, un solo ovulo viene rilasciato e arriva all’utero, dove nell’arco di circa 12 ore può essere fecondato. Poi arriva la fase luteinica, in cui l’endometrio si inspessisce; se non c’è stata fecondazione dopo circa 14 giorni si sfalda facendo iniziare la mestruazione. La maggior parte delle donne sperimenta quasi 450 cicli mestruali nella vita.
    A ogni fase del ciclo corrispondono diversi livelli di differenti ormoni nel corpo. Nella fase follicolare aumentano i livelli di estrogeni fino a un picco; nella fase ovulatoria c’è una notevole diminuzione dei livelli di estrogeni e aumenta progressivamente quello di progesterone; il picco di progesterone avviene nella fase luteinica, che si conclude con la diminuzione dei livelli di progesterone ed estrogeni. Questi ormoni regolano il funzionamento di ovaie e utero, ma possono influenzare anche il resto del corpo.

    – Leggi anche: Cosa sono davvero le mestruazioni

    Per quanto riguarda il cervello, il primo studio che mostrò che in quello dei mammiferi succedeva qualcosa in risposta ai cambiamenti nei livelli di ormoni sessuali femminili risale al 1990.
    Un gruppo di ricerca del laboratorio di neuroendocrinologia della Rockefeller University di New York scoprì che nelle femmine di ratto i livelli di estrogeni hanno degli effetti sull’ippocampo, una parte del cervello che ha grande importanza cognitiva ed è fondamentale per la memoria. In particolare accertò che nell’ippocampo questi ormoni regolano la densità delle ramificazioni dei dendriti, i prolungamenti dei neuroni attraverso cui le cellule del cervello comunicano. Nell’ippocampo, che aumenta di volume negli adulti quando si è impegnati ad apprendere nuove abilità e conoscenze pratiche, ci sono numerosi recettori per gli ormoni sessuali.
    Studi successivi mostrarono poi che con la menopausa, cioè con la fine della fertilità femminile, la densità dei dendriti diminuisce in alcune parti del cervello, ma fino a poco tempo fa nessuno aveva osservato con costanza eventuali cambiamenti analoghi nel corso di uno stesso ciclo mestruale nelle medesime donne.
    I due recenti studi sui cambiamenti del cervello nel corso del ciclo lo hanno fatto. Sono indipendenti tra loro e sono stati divulgati lo scorso ottobre. Il primo è stato realizzato da un gruppo di ricerca dell’Istituto Max Planck per le scienze cognitive e cerebrali umane e dell’Università di Lipsia, in Germania, di cui fa parte Sacher, ed è stato pubblicato sulla rivista scientifica Nature Mental Health. Il secondo studio è stato fatto all’Università della California di Santa Barbara, negli Stati Uniti, ed è stato diffuso su bioRxiv in versione preprint, cioè prima di essere rivisto da ricercatori terzi e indipendenti (peer-review), pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo del gruppo di Lipsia.
    Allo studio tedesco hanno partecipato 27 donne di età compresa tra i 18 e i 35 anni, con cicli mestruali regolari e senza patologie neurologiche o psichiatriche, che non si erano mai sottoposte a terapie ormonali, non avevano avuto gravidanze, aborti e non avevano allattato nell’anno precedente allo studio, e non usavano contraccettivi ormonali da almeno sei mesi. Dallo studio sono state escluse donne che mostravano sintomi umorali premestruali. A ognuna delle partecipanti sono sono stati fatti prelievi di sangue per monitorare i livelli ormonali in sei diversi momenti del ciclo mestruale; nelle stesse occasioni sono state sottoposte a risonanze magnetiche per analizzare l’ippocampo e il vicino lobo temporale mediale.
    In questo modo il gruppo di ricerca di Lipsia ha osservato che all’aumento dei livelli di estrogeni la parte esterna dell’ippocampo aumenta di volume e la materia grigia, costituita dai corpi dei neuroni e dai dendriti, si espande. Quando poi crescono i livelli di progesterone si espande la parte legata alla memoria.
    Lo studio realizzato in California, basato sulle risonanze effettuate su 30 donne di età media di circa 22 anni, ha osservato qualcosa di analogo oltre a modifiche nella sostanza bianca, che invece è costituita dagli assoni, i prolungamenti più lunghi dei neuroni. Gli autori di questo secondo studio hanno ipotizzato che i cambiamenti ormonali associati all’ovulazione possano favorire il trasporto di informazioni tra diverse parti del cervello.
    Per il momento comunque non si possono trarre conclusioni su eventuali effetti sulla memoria, sulle capacità cognitive o su altre funzioni del cervello.
    «In generale, il cervello femminile è ancora molto poco considerato negli studi delle neuroscienze cognitive», ha detto Sacher: «Anche se gli ormoni sessuali steroidei sono potenti modulatori dell’apprendimento e della memoria, meno dello 0,5 per cento della letteratura scientifica basata su tecniche di neuroimaging prende in considerazione le fasi ormonali come quelle del ciclo mestruale, l’influenza dei contraccettivi ormonali, della gravidanza e della menopausa. Siamo impegnati a rimediare a questo grosso buco della ricerca». Nell’ambito della fisiologia e della salute i corpi femminili sono stati studiati molto meno di quelli maschili: nuove scoperte in questo campo potrebbero aiutare a capire meglio i rischi e la resistenza a malattie come la depressione e l’Alzheimer quando riguardano le donne.

    – Leggi anche: Si possono, per scelta, eliminare le mestruazioni? LEGGI TUTTO

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    Qual è la posizione migliore per dormire?

    All’inizio del secondo capitolo dei Promessi sposi, Alessandro Manzoni scrive che «il principe di Condè dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi», una delle battaglie più importanti della Guerra dei trent’anni tra Francia e Spagna nel Seicento. L’autore ricorda che il principe riuscì a dormire nonostante lo attendesse una battaglia decisiva perché «in primo luogo, era molto affaticato» e perché aveva già «stabilito ciò che dovesse fare, la mattina», mentre non fornisce informazioni sulla posizione che Condè mantenne a letto. A dirla tutta, anche se Manzoni ce lo avesse raccontato, ce ne saremmo fatti ben poco: a oggi non c’è infatti un consenso unanime sulla posizione migliore per dormire.Studiare il modo in cui le persone dormono non è semplice: non si possono ricostruire fedelmente in laboratorio le condizioni in cui normalmente una persona riposa come a casa propria, i sensori da indossare per tenere traccia dei movimenti a letto possono turbare il sonno e le persone in generale non sono molto affidabili nel raccontare le loro abitudini notturne. I vari gruppi di ricerca che se ne sono occupati hanno dovuto quindi confrontarsi con questi problemi e ciò spiega, almeno in parte, perché non si trovino molte ricerche solide nella letteratura scientifica.
    La posizione più usataLa pratica più semplice, ma non sempre affidabile, consiste nel chiedere a un gruppo selezionato di persone quali posizioni assumono di preferenza a letto quando si mettono a dormire. È un approccio che può offrire molti spunti, ma ha un grande difetto: mentre quasi tutti si ricordano l’ultima posizione prima di addormentarsi, nessuno ha davvero consapevolezza di quali posizioni assuma nel corso della notte, quando subentra l’alterazione della coscienza. Alcuni dicono di avere un vago ricordo, per esempio se si sono svegliati per qualche istante nottetempo, magari perché avevano un crampo o dovevano andare a fare pipì, ma anche in questo caso i ricordi sono confusi e talvolta contraddittori.
    Un approccio che offre qualche risultato più affidabile consiste nel riprendere gruppi di volontari mentre dormono, utilizzando telecamere a infrarossi che permettono di effettuare riprese anche al buio. Il sistema funziona bene se le persone dormono scoperte, mentre è meno affidabile se per ricreare il più fedelmente possibile le condizioni del normale riposo si utilizzano anche le coperte (il cui peso sembra influire sul modo in cui dormiamo e ci muoviamo a letto). Per questo da qualche tempo vengono sperimentati sistemi con telecamere con sensori che permettono di ricostruire tridimensionalmente le riprese, in modo da rilevare meglio i movimenti durante il sonno.
    Le immagini mostrano le posizioni assunte durante il riposo, anche nel caso di utilizzo di coperte (Sensors)
    Alle telecamere vengono talvolta aggiunti sensori di movimento da indossare, che possono fornire indicazioni più precise sulla posizione assunta nel corso della notte. Utilizzando questo sistema, uno studio ha ricostruito che in media una persona adulta trascorre circa metà del sonno sui fianchi, il 40 per cento dormendo sulla schiena (posizione supina) e il resto del tempo a pancia in giù (posizione prona).
    La stessa ricerca ha rilevato che più le persone invecchiano più tendono a preferire la posizione su un fianco. Per i bambini con più di tre anni di età le cose funzionano invece diversamente e il sonno sul fianco, supino e prono si distribuisce più o meno equamente. I neonati dormono quasi esclusivamente sulla schiena, sia perché hanno meno mobilità sia perché di solito hanno meno possibilità di muoversi, per come vengono messi nella culla anche per ridurre il rischio di soffocamento.
    Qualità del sonno e posizioneIl fatto che una posizione sia mantenuta senza costrizioni per la maggior parte del tempo potrebbe indicare che si tratti della migliore possibile, per ottenere un sonno di qualità e riposante, ma anche in questo caso trovare conferme non è semplice. Come racconta BBC Future, alcuni gruppi di ricerca hanno provato a valutare il rapporto tra posizione e qualità del sonno su alcuni volontari. Gli studi in tema non sono però molti e hanno coinvolto una quantità piuttosto limitata di persone.
    Uno studio osservazionale (cioè basato sulla semplice osservazione di ciò che accade senza interventi da parte di chi effettua la sperimentazione) è consistito nel far dormire alcune persone prendendo nota delle loro posizioni e chiedendo poi come si sentissero dopo avere dormito. Alla fine del test, le persone che avevano trascorso la maggior parte del tempo sul fianco destro avevano riferito di avere riposato un po’ meglio rispetto alle persone che avevano dormito sul fianco sinistro o in posizione supina.
    Una possibile spiegazione è che la maggior parte delle persone respira meglio quando dorme su un fianco, perché le vie aeree rimangono più distese e si riducono i rischi di piccole strozzature che potrebbero rallentare il flusso dell’aria. Per esempio: dormendo sul fianco ci sono meno probabilità che la lingua, l’ugola e gli altri tessuti molli del palato ostruiscano il passaggio dell’aria.
    (William Vanderson/Fox Photos/Getty Images)
    Sono proprio i tessuti molli la principale causa del russare e delle apnee notturne, le fasi dove per qualche istante si smette di respirare e che col tempo possono essere rischiose per il sistema cardiocircolatorio. Non è del resto un caso se alle persone che russano viene consigliato di dormire il più possibile su un fianco, proprio per ridurre il fenomeno, il rischio delle apnee e per dare un po’ di tregua alle persone che dormono con loro.
    Destra o sinistra?Non è comunque chiaro se un fianco sia meglio dell’altro e le testimonianze nelle ricerche variano molto. Per le persone che soffrono di reflusso gastroesofageo, cioè del passaggio ricorrente degli acidi gastrici dallo stomaco verso l’esofago con bruciori e infiammazioni (che a lungo andare possono avere conseguenze importanti sulla salute e che di solito peggiora quando ci si stende a letto), sembra essere più indicato dormire sul fianco sinistro. È stato osservato che in alcune persone che dormono in questa posizione il reflusso diminuisce, probabilmente per via dell’orientamento che assume lo stomaco e in particolare lo sfintere esofageo, che insieme al cardias regola il passaggio delle sostanze tra esofago e stomaco.
    Alle persone con reflusso viene spesso consigliato di dormire utilizzando un paio di cuscini o comunque inclinando verso l’alto il materasso dalla parte della testa, in modo da ridurre la risalita dei succhi gastrici. È un accorgimento di solito efficace, anche se può risultare scomodo per alcuni e può incidere sulla qualità del sonno. Il fatto che nel medioevo si dormisse praticamente seduti non è di grande consolazione.
    Dormire sul fianco potrebbe comunque non essere molto indicato per chi ha problemi alle articolazioni delle gambe e in particolare alle anche. Per ridurre il rischio di ulteriori infiammazioni viene consigliato di inserire un cuscino tra le gambe, più o meno all’altezza delle ginocchia, in modo da ridurre il carico in particolare in prossimità della testa del femore, che si innesta nel bacino.
    Segni e rugheSul dormire o meno sul fianco potrebbero influire anche valutazioni non legate direttamente alla qualità del sonno, salvo non si abbia il terrore di avere qualche ruga. Una decina di anni fa un gruppo di chirurghi estetici scrisse un’analisi della letteratura scientifica disponibile sulle distorsioni che la pelle subisce mentre si dorme, in particolare quella del viso che rimane per molte ore compresso tra cuscini, coperte e materasso.
    L’analisi segnalava la possibilità di distinguere tra rughe di espressione e dovute a sollecitazioni meccaniche esterne, come tenere la faccia appoggiata a lungo su un cuscino, ma indicava comunque una certa difficoltà nel ricondurre alcuni tipi di rughe alla posizione assunta a letto. Mentre le rughe di espressione sono legate a una riduzione della tenuta dell’impalcatura della pelle (costituita per lo più da collagene) e della muscolatura del viso, le rughe da sonno hanno cause diverse e potrebbero quindi rispondere meno ai trattamenti più utilizzati per nasconderle, come l’impiego di neurotossine (come il botulino).
    Schema dei segni sulla pelle che potrebbero derivare dalla compressione del viso a letto (Aesthet Surg J)
    Il gruppo di chirurghi estetici aveva concluso la ricerca suggerendo la posizione supina per ridurre il rischio di avere molte rughe da sonno, pur riconoscendo la difficoltà di mantenere la medesima posizione durante tutta la fase del sonno: «La nostra posizione iniziale deriva da una scelta, ma inconsciamente cambiamo poi posizione nel corso della notte. La posizione supina potrebbe essere ideale per l’estetica del viso, ma potrebbe peggiorare condizioni come le apnee notturne, il reflusso gastroesofageo e il forte russamento».
    Schiena e torcicolloAl di là dell’estetica, la posizione sul fianco può rivelarsi problematica per le persone che soffrono di torcicollo. Analizzando il sonno di un gruppo di volontari, uno studio ha notato che chi segnalava di svegliarsi con problemi al collo trascorreva almeno una parte della notte in una posizione contorta: iniziava dormendo normalmente sul fianco, ma dopo un po’ ruotava il bacino comportando una torsione della colonna vertebrale. In quella posizione tendini e muscoli del collo possono subire stiramenti e maggiori sollecitazioni, dai quali derivano poi i problemi alla cervicale al risveglio. Più notti trascorse in una posizione contorta possono causare una maggiore infiammazione del collo, al punto da richiedere l’uso di antidolorifici o di fisioterapia per risolvere il problema.
    Anche in questo caso lo studio deve essere comunque preso con le molle. Non è infatti chiaro se i volontari assumessero quella posizione casualmente procurandosi poi il male al collo, o se invece finissero per assumerla per non sentire il dolore di un torcicollo già presente (“posizione antalgica”). In questo secondo caso, il problema non sarebbe stato causato dalla posizione sul fianco, ma da altri fattori preesistenti.
    Sempre BBC Future segnala uno studio che fu realizzato alcuni anni fa in Portogallo, con un gruppo di volontari che soffrivano di mal di schiena o di torcicollo. Ai primi fu detto di dormire su un fianco, mentre agli altri di dormire supini. Dopo un mese, il gruppo di ricerca effettuò un sondaggio tra i partecipanti e il 90 per cento di loro disse di avere notato un miglioramento, con la riduzione del dolore. Lo studio era però stato svolto su appena una ventina di persone, quindi un campione ridotto per trarre conclusioni in generale. Non era inoltre stato possibile verificare più di tanto il rispetto delle indicazioni sulla posizione da assumere, senza contare che comunque questa varia durante il riposo.
    Altre ricerche su posizione e qualità del sonno si sono concentrare sui cuscini e le loro caratteristiche, partendo dal presupposto che un sostegno per la testa e il collo sia importante per ridurre gli stress a carico della colonna vertebrale. La mancanza di un sostegno può interferire negativamente sull’allineamento delle vertebre, causando dolori muscolari al collo, alle spalle e fino all’area lombare.
    Cuscini e materassiIl materiale con cui è fatto il cuscino sembra non incidere più di tanto sulla salute della schiena e in particolare della cervicale. Altre ricerche hanno invece segnalato come la forma del cuscino sia importante, ma comunque con un certo grado di soggettività come spesso avviene con le cose tra salute e comfort. Un cuscino con un’infossatura al centro sembra favorire un sonno di maggiore qualità, ma anche in questo caso sarebbero necessari altri studi per tenere in considerazione tutte le variabili.
    Per quanto riguarda i materassi, quelli semirigidi offrono maggiore sostegno alla schiena e riducono il rischio di assumere posizioni troppo contorte. Girare e ruotare almeno un paio di volte all’anno il materasso aiuta a mantenerlo più confortevole e a farlo durare di più, visto che la pressione esercitata dal corpo varia molto dalla testa alle gambe.
    AbitudiniIn conclusione, non c’è in assoluto una posizione migliore delle altre per dormire, ma in alcuni casi può essere utile e salutare provare a cambiare abitudine, anche se può risultare molto difficile per chi è da sempre abituato ad addormentarsi in una certa posizione. Inoltre, si stima che ogni persona si sposti tra le 10 e le 40 volte nel corso di una notte, con una certa tendenza a tornare istintivamente nella propria posizione di abitudine dopo un po’ di tempo.
    Per provare a cambiare abitudine, gli esperti consigliano di utilizzare qualche ostacolo fisico che induca a mantenere la posizione consigliata, che nella maggior parte dei casi è quella su un fianco (specialmente per chi ha problemi di reflusso o di apnee notturne, come abbiamo visto). La tecnica più suggerita consiste nel cucire una pallina da tennis nel proprio pigiama, all’altezza della schiena o del torso, a seconda se si tende a dormire molto supini o proni. In questo modo quando si prova a cambiare posizione da addormentati si eviterà di rimanere sulla schiena o a pancia in giù, tornando a dormire su un fianco. Dopo qualche notte si perde l’abitudine a dormire nella posizione da evitare, ma è stato osservato che dopo un po’ di tempo il problema tende a ripresentarsi, rendendo necessarie nuove sessioni con la pallina da tennis.
    Negli ultimi anni sono stati sviluppati particolari dispositivi da indossare che rilevano la posizione e, nel caso sia quella scorretta, inviano una lieve scossa o una vibrazione che induce a sistemarsi meglio a letto. Il sistema sembra funzionare, ma nei primi tempi potrebbe ridurre la qualità del sonno a causa dei microrisvegli dovuti alle scosse o alle vibrazioni.
    Una via di mezzo senza palline da tennis e scosse prevede di utilizzare semplicemente un cuscino, oppure un cuneo di gommapiuma, da tenere alle spalle quando si dorme sul fianco, in modo da rendere meno probabile il ritorno in una posizione prona o supina. LEGGI TUTTO

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    Mascherine e depuratori per l’aria proteggono dall’inquinamento?

    Caricamento playerLa pessima qualità dell’aria di questi giorni nella Pianura Padana non ha soluzioni semplici e immediate perché è legata alle condizioni meteorologiche, alla geografia e alla presenza di numerose città, industrie e allevamenti nella regione. Chi si preoccupa dei rischi per la salute legati a questa forma di inquinamento può comunque adottare alcune abitudini come prevenzione: ad esempio usare mascherine per bocca e naso quando sta all’esterno e usare dispositivi per depurare l’aria negli ambienti chiusi.
    L’inquinamento atmosferico è una delle principali cause di malattie cardiovascolari e di un generale accorciamento delle aspettative di vita secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). In particolare l’Agenzia europea per l’ambiente (AEA) ha stimato che nel 2021 almeno 253mila persone siano morte a causa dell’esposizione cronica alle micropolveri, anche note come particolato o PM, e almeno 52mila per l’esposizione cronica al biossido di azoto, un gas prodotto soprattutto dai motori diesel ma anche dagli impianti di riscaldamento e dalle industrie, che è il principale gas inquinante dannoso per la salute.
    Le misure di prevenzione per la salute personale che si possono applicare usando mascherine e depuratori riguardano il particolato. Entrambi questi strumenti infatti funzionano grazie a filtri per l’aria che trattengono le piccole particelle solide o liquide presenti nell’aria: le mascherine sono essenzialmente dei filtri per naso e bocca, mentre i depuratori contengono dei filtri al loro interno attraverso cui viene fatta passare l’aria presente in un ambiente chiuso. Non possono invece far nulla per i gas inquinanti perché le dimensioni delle particelle gassose sono dello stesso ordine di grandezza di quelle dei componenti dell’aria che invece dobbiamo respirare per vivere: una mascherina che li bloccasse sarebbe piuttosto dannosa per la salute.

    – Leggi anche: Ha senso confrontare l’inquinamento di Milano con quello di Delhi?

    Non sono ancora state fatte ricerche scientifiche che dicano qualcosa sugli effetti a lungo termine dell’uso metodico di mascherine per il viso per proteggersi dall’inquinamento dell’aria, dunque non è possibile dire in che misura garantiscano protezione dai rischi per la salute. Tuttavia vari studi hanno dimostrato che le mascherine sono efficaci nel trattenere il particolato, in particolare il PM10, quello composto da particelle di dimensioni maggiori, cioè con un diametro fino a un centesimo di millimetro (10 micrometri).
    Uno studio pubblicato nel 2021 ha riscontrato che praticamente qualsiasi tipo di mascherina per il viso (comprese quelle di cotone) rappresenta una qualche forma di filtro per il particolato. Realizzato da un gruppo di scienziati del Colorado, negli Stati Uniti, per valutare l’utilità delle mascherine più diffuse contro l’inquinamento da incendi boschivi, questo studio dice che però quelle più efficaci sono le N95, le cui caratteristiche corrispondono più o meno a quelle delle FFP2 in uso in Europa. Tali mascherine, secondo le analisi del gruppo di ricerca, proteggono dal particolato urbano tre volte di più rispetto alle mascherine chirurgiche, anche se l’efficacia diminuisce con le particelle di diametro inferiore al micrometro. Bisogna inoltre ricordare che si tratta di dispositivi usa e getta.
    Le mascherine chirurgiche potrebbero essere filtri efficaci se non fosse che non aderiscono bene al viso. Infatti per bloccare davvero il particolato le mascherine non devono lasciare spazi per il passaggio di aria non filtrata. La loro efficacia diminuisce se chi le indossa ha la barba o fa dei movimenti a causa dei quali le mascherine si spostano molto sulla pelle, come quelli che si possono fare mentre si va in bici.
    Un’altra precauzione che si può applicare in giorni di alto inquinamento dell’aria cittadina è evitare di fare attività sportiva all’aperto.
    Per quanto riguarda gli ambienti chiusi, l’inquinamento dell’aria può essere anche maggiore rispetto all’esterno. Negli interni infatti le fonti di sostanze inquinanti sono moltissime: a quelle dell’aria esterna si uniscono le particelle prodotte da esseri umani e animali (l’anidride carbonica che espiriamo, ma anche piccole gocce di saliva di quando tossiamo o starnutiamo, peli, forfora, eccetera), le sostanze rilasciate da processi di combustione come la cottura dei cibi, il riscaldamento, il fumo di sigaretta, incensi, candele e altro, e quelle rilasciate dai prodotti per la pulizia e altri.
    La misura più efficace per ripulire l’aria degli ambienti chiusi, anche se può sembrare controintuitivo in giornate di pessima qualità dell’aria, è aprire le finestre con una certa frequenza. «Almeno 2 o 3 volte al giorno per almeno 5 minuti», aveva spiegato alcuni anni fa al Post Alessandro Miani, presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale: «L’apertura delle finestre porta a una dispersione e diluizione delle sostanze concentrate nell’aria delle case anche in giorni in cui l’aria esterna è particolarmente inquinata. Se vivete in città, meglio aprire le finestre che affacciano su vie poco trafficate o su cortili interni, in orari in cui ci sono meno macchine in giro come la sera, la mattina presto o l’ora di pranzo».
    In aggiunta si possono poi utilizzare dei dispositivi per filtrare l’aria spesso usati dalle persone allergiche ai pollini. Questi dispositivi sono efficaci per filtrare il particolato se contengono i cosiddetti filtri HEPA (dall’inglese High Efficiency Particulate Air filter), che spesso sono presenti negli impianti di condizionamento industriale ma non in quelli domestici, e sono in grado di trattenere anche il PM2,5 o “particolato fine”, quello formato da particelle con diametro inferiore a 2,5 micrometri.
    Come per le mascherine, non sono disponibili studi a lungo termine che diano informazioni sui benefici per la salute dell’uso di depuratori con filtri HEPA. Una rassegna delle ricerche fatte fino al 2020 su questi dispositivi ha però concluso che i depuratori riducano effettivamente la concentrazione di PM2,5 nell’aria degli ambienti chiusi e che siano una buona soluzione familiare per proteggersi da fonti di inquinamento esterne, se utilizzati correttamente e ben manutenuti. Si tratta di dispositivi che però costano alcune centinaia di euro. LEGGI TUTTO

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    Perché si parla di un’allerta dengue

    Caricamento playerMartedì il ministero della Salute ha innalzato il livello di allerta legato alla diffusione della dengue dall’estero, soprattutto in seguito al significativo aumento di casi di questa malattia in Brasile e in altri paesi del Sudamerica. L’innalzamento dell’allerta è stato segnalato da alcuni giornali talvolta con toni allarmati, ma al momento non ci sono particolari rischi per la diffusione in Italia della malattia, che viene trasmessa da alcune specie di zanzare.
    SudamericaSecondo i dati diffusi all’inizio della settimana dal ministero della Salute brasiliano, nel paese sono stati rilevati oltre 512mila casi di dengue (tra confermati e probabili) da inizio anno, e almeno 75 morti causati dalla malattia. Le autorità sanitarie stanno inoltre effettuando verifiche su altri 340 decessi che potrebbero essere ricondotti a infezioni di dengue. Il maggior numero di casi rispetto alla popolazione è stato registrato nella capitale Brasilia, con quasi 2.300 infezioni da dengue ogni 100mila abitanti. La situazione è stata definita preoccupante da esperti e osservatori, ma il problema non riguarda unicamente il Brasile.
    In Sudamerica è estate e c’è di conseguenza una maggiore circolazione di zanzare (nei paesi tropicali dove il clima è mite per buona parte dell’anno il problema è sentito anche in altri periodi). Nelle ultime settimane i casi di dengue sono sensibilmente aumentati anche in Argentina, Uruguay e Paraguay. Il ministero della Salute argentino ha segnalato quasi 40mila casi da metà dello scorso anno a inizio febbraio, e 29 morti dovute alla malattia nel medesimo periodo. L’incidenza è stata di 86 casi ogni 100mila persone ed è stata confermata la presenza della malattia in buona parte delle regioni del paese.
    La dengue è tra le malattie più diffuse nei climi tropicali e subtropicali. Fare una stima accurata di quanti casi ci siano ogni anno a livello globale è molto difficile, perché nella maggior parte dei casi la malattia non causa sintomi e chi contrae l’infezione non si accorge di averla. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) stima che ci siano tra i 100 e i 400 milioni di infezioni da dengue all’anno, ma ultimamente ha segnalato un aumento dei casi e il rischio concreto che la malattia diventi un problema globale anche a causa dell’aumento della temperatura legato al cambiamento climatico. Più aree geografiche diventano calde e umide e di conseguenza in più zone aumentano le popolazioni di zanzare, responsabili della trasmissione della malattia.
    Dengue e zanzareCi sono almeno quattro virus simili tra loro (più un quinto che si sta valutando di aggiungere alla lista) che causano la dengue. La trasmissione del virus avviene attraverso le punture delle zanzare, mentre non sono noti casi di contagio diretto tra esseri umani. Una persona infetta viene quindi punta da una zanzara che pungerà poi un’altra persona, trasmettendo in questo modo il virus.
    Nei casi in cui la dengue causa sintomi, si hanno di solito febbre, mal di testa, dolori muscolari e intorno agli occhi; alcune persone sviluppano anche nausea e vomito, o ancora uno sfogo cutaneo con irritazioni in varie parti del corpo. La diagnosi non è sempre semplice, soprattutto nei paesi dove la malattia non è normalmente presente e viene quindi ritenuta meno probabile rispetto ad altre, ma ci sono test che possono essere effettuati per cercare tracce del virus nel sangue oppure gli anticorpi specifici che il sistema immunitario sviluppa per contrastarlo.
    Non essendoci una cura vera e propria, la dengue viene trattata con una “terapia di sostegno”: si lascia che siano le difese dell’organismo a superare l’infezione, aiutandolo con un’adeguata somministrazione di liquidi e se necessario di farmaci per ridurre l’entità dei sintomi. In casi molto rari si può sviluppare una febbre emorragica, che può portare a pericolose emorragie interne con uno shock circolatorio ed eventualmente la morte. È stato riscontrato un maggior rischio di avere complicazioni per chi si era già ammalato di dengue in passato, ma con un tipo di virus diverso da quello della nuova infezione.
    Le specie di zanzara note per fare da vettore della dengue sono Aedes aegypti e Aedes albopictus. La prima viene spesso chiamata “zanzara della febbre gialla” ed è la causa anche della trasmissione della malattia Zika, della chikungunya e della febbre gialla; la seconda è conosciuta soprattutto come “zanzara tigre” per via delle sue striature bianche e nere: è indigena delle aree tropicali e subtropicali, ma si è ormai adattata a vivere in zone relativamente più fredde ed è diffusa in diversi paesi europei.
    Dengue in ItaliaDi dengue in Italia si era parlato molto all’inizio di settembre del 2023 in seguito ad alcuni casi autoctoni rilevati in provincia di Lodi e in seguito in altre zone della Lombardia. I casi erano stati osservati con attenzione perché non derivavano da persone ritornate da un viaggio all’estero, dove può accadere che si contragga un’infezione, ma da persone che erano state infettate mentre si trovavano nella zona. A scopo di prevenzione, erano state effettuate attività di bonifica per ridurre le popolazioni di zanzare e il rischio di nuovi casi.
    VaccinoOltre al controllo della popolazione di zanzare e all’impiego di rimedi per ridurre il rischio di essere punti, da qualche tempo sono disponibili alcuni vaccini contro la malattia. Lo sviluppo di un vaccino ha richiesto diverso tempo, perché era difficile ottenere un prodotto che fosse efficace contro la maggior parte dei virus che possono causare la malattia. Il più recente e che si è dimostrato efficace contro i quattro tipi di virus è stato sviluppato e prodotto dall’azienda farmaceutica giapponese Takeda. In seguito ai risultati positivi ottenuti nei test clinici, nel 2022 è stato autorizzato per il suo impiego nell’Unione Europea e ha ricevuto l’approvazione anche in Brasile e Argentina, ora impegnati a vaccinare la popolazione visto l’aumento notevole dei casi degli ultimi mesi.
    In Italia il vaccino prodotto da Takeda sarà messo a disposizione della popolazione dalla prossima settimana, tramite l’Istituto Spallanzani di Roma, centro di riferimento per le malattie infettive nel nostro paese. Sarà somministrato nell’ambulatorio di malattie tropicali, ma solo su richiesta e attraverso un sistema di prenotazione.
    AllertaAl momento il vaccino è indicato per chi abbia intenzione di recarsi in luoghi dove c’è una forte presenza di dengue, mentre non ci sono motivi per la popolazione generale per vaccinarsi visto che i casi autoctoni nel nostro paese sono stati finora rari. L’innalzamento dell’allerta deciso dal ministero della Salute riguarda le procedure che vengono attuate soprattutto nei porti e negli aeroporti per ridurre la presenza delle zanzare, in modo che non ci siano insetti infetti provenienti dai paesi attualmente più a rischio.
    Molte procedure sono già normalmente previste per evitare contaminazioni di vario tipo, ma la circolare invita a «vigilare attentamente sulla disinsettazione degli aeromobili» e di «valutare l’opportunità di emettere ordinanze per l’effettuazione di interventi straordinari di sorveglianza delle popolazioni di vettori ed altri infestanti e di disinfestazione». L’invito è rivolto agli Uffici di sanità marittima aerea e di frontiera, che sono competenti per la vigilanza su ciò che arriva attraverso i cosiddetti “Punti di ingresso italiani”.
    Il fatto che sia stata alzata l’allerta riguarda quindi una riduzione del rischio su eventuali contagi provenienti dall’estero, in una fase in cui la dengue è molto diffusa soprattutto in alcuni paesi del Sudamerica. È una procedura prevista in casi come questi, ma non implica che ci siano pericoli immediati per la popolazione nel nostro paese. LEGGI TUTTO

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    Avremo farmaci sviluppati dalle intelligenze artificiali?

    Sviluppare un nuovo farmaco è un po’ come fare una scommessa: si investono tempo e moltissimo denaro nella ricerca e nella sperimentazione di qualcosa che non si sa se davvero funzionerà e che potrebbe rivelarsi un costosissimo fallimento. Una nuova molecola molto promettente in laboratorio può mostrarsi inefficace nella sperimentazione animale o nei test clinici sugli esseri umani e prevederlo prima è spesso impossibile. Per ridurre uno dei rischi di impresa più grandi che esistano, negli ultimi tempi le aziende farmaceutiche hanno iniziato a esplorare le nuove possibilità offerte dai sistemi di intelligenza artificiale (AI), i cui progressi sono diventati evidenti anche ai meno esperti nell’ultimo anno soprattutto grazie al successo di ChatGPT di OpenAI.Alcune aziende hanno iniziato a utilizzare le AI per provare a prevedere efficacia e sicurezza di nuovi principi attivi, altre per rendere più semplice e rapido il complicato processo di selezione dei volontari che partecipano ai test clinici. Lo hanno fatto sia sviluppando al proprio interno nuove divisioni dedicate ai sistemi di intelligenza artificiale, sia appoggiandosi alle società e startup nate di recente proprio per applicare le AI al settore dei farmaci.
    A inizio gennaio le due aziende farmaceutiche Eli Lilly e Novartis hanno stretto un accordo con Isomorphic Labs, una società controllata da Alphabet (la holding di Google) e nata da una divisione di DeepMind, una delle più innovative aziende nel settore delle AI. Trattandosi di accordi per un valore complessivo di 3 miliardi di dollari se ne è parlato molto e non solo tra gli addetti ai lavori, ma le condizioni prevedono investimenti piuttosto misurati nel tempo. Eli Lilly anticiperà 45 milioni di dollari, ma i restanti 1,7 miliardi di dollari dell’accordo saranno pagati solo al raggiungimento di alcuni risultati ambiziosi, come l’avvio dei test clinici o l’approvazione dei nuovi principi attivi. Qualcosa di analogo riguarda anche Novartis che anticiperà 37,5 milioni di dollari e investirà altri 1,2 miliardi di dollari nel tempo, sulla base di un sistema basato su incentivi e risultati.
    DeepMind è tra le società che più hanno sperimentato l’impiego delle AI in ambito scientifico e in particolare nell’analisi e nella previsione delle caratteristiche delle proteine. La forma di una proteina determina infatti anche la sua funzione, di conseguenza lo studio e la previsione della sua struttura sono fondamentali nello sviluppo di molti farmaci. Isomorphic Labs parte da quelle conoscenze e ha l’obiettivo di accelerare in modo significativo la fase di scoperta di nuove molecole per i farmaci che attualmente dura diversi anni e richiede molte risorse, portandola dalla media di cinque anni a due.
    Sfruttando diversi modelli di apprendimento automatico, Isomorphic Labs ha sviluppato una piattaforma per prevedere le caratteristiche delle molecole e il modo in cui potranno interagire con l’organismo. Avere la possibilità di fare queste valutazioni in maniera più accurata consente di orientare la ricerca, riducendo il rischio di un fallimento nelle fasi successive quando dalla sperimentazione in laboratorio si passa ai test clinici con le persone. Il sistema naturalmente non garantisce sempre la produzione di molecole efficaci e sicure, ma secondo i responsabili dell’azienda può limitare sensibilmente gli insuccessi e soprattutto potrebbe accelerare le fasi di sviluppo.
    In un certo senso i sistemi di Isomorphic Labs hanno qualcosa in comune con i modelli generativi come ChatGPT, che tra le altre cose riescono a comporre testi come in una normale conversazione utilizzando la statistica per prevedere qualche parola da inserire dopo quella che hanno appena prodotto. Le AI per lo sviluppo dei farmaci fanno qualcosa di simile, ma per progettare le strutture molecolari rispettando alcune regole e limitazioni che vengono scelte dagli operatori. In poco tempo, il sistema è in grado di produrre numerose varianti della stessa molecola, affinando man mano il risultato in base agli effetti previsti sull’organismo.
    Sanofi, un’altra grande azienda farmaceutica, ha avviato una collaborazione con la società Exscientia che nella sua documentazione si presenta con frasi alquanto audaci come: “In futuro tutti i farmaci saranno progettati con le AI. Il futuro è ora con Exscientia”. Anche questa azienda ha l’obiettivo di scoprire nuovi principi attivi e di prevederne le caratteristiche e le interazioni con l’organismo, ancora prima di avviarne lo sviluppo e la sperimentazione.
    L’azienda farmaceutica italiana Menarini ha invece avviato una collaborazione con Insilico Medicine, società fondata tra Hong Kong e New York che sostiene di avere già sviluppato 17 potenziali nuovi farmaci sui quali effettuare i test clinici. L’accordo ha un valore stimato intorno ai 500 milioni di dollari e coinvolge Stemline Therapeutics, una delle controllate di Menarini, che avrà l’esclusiva per lo sviluppo, la sperimentazione e l’eventuale vendita di un nuovo principio attivo per il trattamento di alcune forme di tumore. Le possibilità di successo, però, sono ancora tutte da dimostrare.
    Per questo motivo ha suscitato una certa attenzione nel settore l’avvio dei test clinici su un nuovo farmaco sperimentale di Genentech per trattare la colite ulcerosa, una malattia cronica che comporta una forte infiammazione del colon, tale da far aumentare nel tempo il rischio di tumore rispetto a chi non ha questa condizione. Il principio attivo era stato sviluppato per trattare altri problemi di salute, ma da alcune simulazioni con sistemi di intelligenza artificiale è emerso che avrebbe potuto dare qualche risultato contro la colite ulcerosa.
    Talvolta può accadere che un farmaco sperimentale si riveli inefficace nel trattare la condizione per cui era stato sviluppato, mentre mostra di essere promettente contro un’altra malattia. Scoprirlo però non è semplice e richiede spesso anni di lavoro o qualche coincidenza favorevole. I gruppi di ricerca di Genentech sono riusciti a ottenere questo risultato in nove mesi utilizzando anche le AI per confrontare milioni di ipotesi, fino a trovare conferme sulla probabile utilità del loro farmaco nel trattare le cellule del colon coinvolte nella malattia.
    Già nel 2022 erano emersi indizi sul possibile uso del farmaco contro la colite ulcerosa, ma ora saranno necessari i test clinici per confermare la sua efficacia su pazienti veri. Le sperimentazioni di questo tipo fuori dai laboratori sono richieste dalle autorità di controllo per assicurarsi non solo che un farmaco sia efficace, ma anche sicuro per chi lo utilizza.
    I tempi dei test clinici sono molto lunghi e spesso hanno una fase iniziale molto costosa, sia in termini di tempo sia di denaro, per la selezione dei volontari che dovranno far parte della sperimentazione. Per alcuni test clinici è infatti necessario avere persone con diagnosi chiare della malattia che si vuole trattare, distribuiti in particolari fasce della popolazione per genere, età, condizione economica e provenienza geografica. In molti studi più il campione selezionato è di qualità, più ci si possono attendere dati affidabili.
    Partendo da questi presupposti, alcune aziende farmaceutiche hanno iniziato a sfruttare sistemi di intelligenza artificiale per organizzare la selezione dei volontari nei test clinici. Le AI possono accedere a enormi elenchi, come quelli degli ospedali o quelli tenuti dalle istituzioni sanitarie, effettuando rapidamente una preselezione in base ai criteri richiesti dall’azienda farmaceutica. In questo modo si riducono i tempi successivi della selezione e, almeno in linea teorica, si possono ottenere gruppi di volontari più adatti alla sperimentazione da svolgere.
    La multinazionale farmaceutica Amgen ha sviluppato uno strumento di intelligenza artificiale che si chiama ATOMIC, specializzato nella ricerca e nella classificazione dei dati clinici provenienti da medici, ospedali e altre istituzioni sanitarie. Amgen dice che con il nuovo sistema è in grado di selezionare in meno di nove mesi i volontari per uno studio clinico, rispetto all’anno e mezzo di lavoro richiesto in precedenza. La società ha già usato lo strumento per l’avvio di alcuni test clinici legati alle malattie cardiovascolari e al trattamento dei tumori con buoni risultati, di conseguenza utilizzerà ATOMIC per buona parte delle nuove selezioni in programma per quest’anno.
    La selezione dei volontari è naturalmente un ambito molto diverso rispetto a quello dello sviluppo di nuovi principi attivi, ma è comunque importante perché una sua migliore gestione potrebbe consentire alle aziende farmaceutiche di risparmiare tempo e denaro. È inoltre un settore in cui secondo gli esperti ci sono maggiori margini di successo in breve tempo e minori rischi, considerata la diversa complessità dell’iniziativa.
    Soluzioni di questo tipo sono inoltre viste come una naturale evoluzione degli strumenti basati sulle AI che avevano iniziato a farsi spazio nelle aziende farmaceutiche. Per esempio l’azienda svizzera Roche ha sviluppato un sistema che ha chiamato RocheGPT con dati e informazioni legati all’azienda, alle sue attività e agli ambiti di ricerca. RocheGPT è visto come una sorta di ChatGPT, ma altamente specializzato sulle caratteristiche di Roche e in grado di fornire risposte di vario tipo e in vari ambiti, non necessariamente legati alla sola ricerca, ma anche alla gestione delle attività aziendali.
    Altre aziende farmaceutiche hanno iniziato a sperimentare le AI per accelerare altri processi che di solito richiedono molto tempo legati alla compilazione della documentazione da presentare agli organismi regolatori, come la Food and Drug Administration (FDA) negli Stati Uniti e l’Agenzia europea per i medicinali (EMA) in Europa. In alcuni casi si tratta di documenti accessori e meno importanti, in altri dell’organizzazione dei dati dei test clinici sui quali è comunque necessario un controllo umano finale. Al momento FDA ed EMA non hanno regole esplicite sull’impiego dei sistemi di intelligenza artificiale, ma iniziano a essere sollevati dubbi e preoccupazioni per la loro mancanza, come del resto sta avvenendo in diversi altri settori in cui hanno iniziato a diffondersi le AI di ultima generazione.
    A essere molto interessate al settore farmaceutico non ci sono solamente le società che sviluppano sistemi di intelligenza artificiale, ma anche le aziende che producono microprocessori. Nvidia, uno dei principali produttori al mondo di chip e molto attivo nel settore dei sistemi per le AI, ha contratti con almeno una ventina di aziende farmaceutiche per fornire i propri processori o i centri dati che vengono impiegati per la grande quantità di calcoli richiesti da alcuni modelli di intelligenza artificiale. La domanda è alta e secondo alcuni analisti in breve tempo alcune delle aziende farmaceutiche più grandi competeranno per i dati e la capacità di elaborarli.
    L’interesse intorno ai sistemi di intelligenza artificiale nell’ultimo anno è stato senza precedenti e di sicuro ha portato ad aspettative che in alcuni ambiti sono molto più alte rispetto alle effettive capacità di alcune AI. Gli investimenti, comunque, non mancano in numerosi settori e si prevede che si manterranno alti anche nel corso di quest’anno. In ambito farmaceutico si stima che nell’ultimo decennio ci siano stati investimenti per circa 18 miliardi di dollari in società di biotecnologie che hanno al centro i sistemi di intelligenza artificiale. Se agli inizi riguardavano per lo più società di dimensioni relativamente piccole o medie, ora interessano alcuni dei marchi più famosi e potenti al mondo. LEGGI TUTTO

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    Quanto caffè è troppo caffè?

    Ogni giorno miliardi di persone in tutto il mondo iniziano la loro giornata bevendo una o più tazze di caffè. Per molte di loro è un’abitudine, per altre una necessità per sentirsi più attive e scrollarsi di dosso la sonnolenza rimasta dopo il risveglio. C’è poi chi ripete il rito in diversi altri momenti della giornata, per semplice piacere e golosità oppure per allontanare una certa sensazione di torpore e continuare a sentirsi attivo. Il caffè è del resto una delle bevande più popolari e di conseguenza la caffeina – il suo stimolante principale – è la sostanza psicoattiva più diffusa e consumata al mondo.Proprio per queste sue caratteristiche in molti si chiedono se ci sia un limite oltre il quale è meglio non andare con il consumo di caffè. Come spesso accade con le sostanze che danno una certa dipendenza, è una domanda che ci si fa quando ci si ferma a pensare al numero di tazzine già bevute in una giornata, ma trovare una risposta soddisfacente non è semplice.
    Il nome chimico della caffeina è un po’ meno abbordabile rispetto a quello che usiamo comunemente: 1,3,7-trimetilxantina. Questa sostanza è alla lontana imparentata con la morfina e fa parte degli alcaloidi, un grande gruppo di sostanze naturali che comprende per esempio la cocaina e la nicotina. La tossicità di queste due sostanze è relativamente alta se confrontata con quella della caffeina, che ha un effetto tossico e potenzialmente letale per una persona adulta solo nel caso di un consumo enorme di caffè.

    – Leggi anche: Che mangino croissant, o cornetti, o brioche

    La caffeina è presente naturalmente in molte parti di piante come i chicchi del caffè e del cacao, le bacche di guaranà e nelle foglie di tè. La sua presenza fu identificata separatamente nel caffè e nel tè nella prima metà dell’Ottocento, di conseguenza per un po’ di tempo si pensò che la caffeina fosse tipica del caffè mentre la teina del tè. In seguito si scoprì che si trattava della stessa molecola e che quella distinzione non aveva quindi senso. La scoperta contribuì inoltre a chiarire che la caffeina non ha un ruolo specifico nel gusto del caffè: questo deriva in buona parte dal metodo utilizzato per tostare i chicchi, che porta a sapori più o meno intensi. È spesso la miscela di caffè di varietà diverse tostati in modo diverso a rendere il gusto di un espresso diverso da un altro.
    La molecola della caffeina ha una struttura simile a quella dell’adenosina, una sostanza importante per il sistema nervoso e che tra le altre cose causa sonnolenza se si lega a un recettore di una cellula nervosa. Quando beviamo un caffè, il nostro organismo assorbe rapidamente e completamente la caffeina che finisce in circolazione e inganna le cellule nervose, che credono di avere a che fare con l’adenosina. Il risultato è un aumento dei livelli di adrenalina e di altre sostanze che fanno da stimolanti per il sistema nervoso, con effetti come un aumento del battito cardiaco e un maggiore afflusso di sangue ai muscoli.
    Di solito questo effetto stimolante si produce tra i 15 e i 30 minuti dopo avere bevuto il caffè, quindi quella sensazione di sentirsi “da subito” più attive che riferiscono molte persone è quasi sempre un effetto indotto dalle aspettative positive (effetto placebo) su ciò che la caffeina potrà fare per farle sentire più sveglie e presenti a loro stesse. Una volta che si è verificato, l’effetto stimolante dura per qualche ora, prima di iniziare a svanire gradualmente.
    Si stima che in una persona adulta l’emivita, cioè il tempo che l’organismo impiega per eliminare il 50 per cento di una sostanza, della caffeina sia in media di circa quattro ore. Ci sono però molte variabili da tenere in considerazione come l’età, il peso corporeo, l’assunzione in concomitanza di farmaci e le condizioni generali di salute che possono influire sull’emivita, che comunque raramente supera le otto ore.
    Calcolare il consumo di caffeina nella popolazione non è semplice, sia per la difficoltà di raccolta dei dati, sia perché le abitudini variano molto da paese a paese. Alcuni anni fa l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) aveva condotto una propria valutazione del rischio sulla caffeina e aveva pubblicato i dati sulle assunzioni quotidiane medie negli stati membri dell’Unione Europea. Dall’analisi era emerso che le persone adulte (18-65 anni) consumano mediamente tra i 37 e i 319 milligrammi di questa sostanza, con valori massimi lievemente più alti negli anziani e maggiori nelle persone molto anziane.
    (EFSA)
    La fonte principale di caffeina era il caffè, che rappresentava tra il 40 e il 94 per cento dell’assunzione totale; facevano eccezione Irlanda e Regno Unito (all’epoca dell’indagine ancora nell’UE) dove la fonte principale risultava essere il tè. Le differenze più marcate tra i vari paesi erano state rilevate nella fascia degli adolescenti (10-18 anni) a causa delle numerose fonti alternative di caffeina, come alcuni tipi di cioccolato e bevande a base di cacao, oppure bevande a base di cola o di tè. Tra gli adolescenti era inoltre diffuso il consumo delle cosiddette “bevande energetiche”, che spesso oltre a contenere grandi quantità di zucchero hanno una concentrazione importante di caffeina.
    Per quanto riguarda il caffè inteso come bevanda, le differenze rilevate dall’EFSA tra i vari stati membri erano per lo più legate al modo in cui viene preparato e alle miscele utilizzate. In alcuni paesi come il nostro è molto diffuso l’espresso, mentre in altri sono consumati soprattutto caffè “lunghi” realizzati con percolatori e altri sistemi. Nella preparazione di un espresso l’acqua passa rapidamente attraverso il caffè, di conseguenza la quantità di caffeina che finisce nella tazzina è inferiore rispetto ad altri sistemi, naturalmente a parità di quantità di caffè. Quello preparato con la moka, per esempio, ha di solito una maggiore concentrazione di caffeina.
    In una tazzina di espresso (60 ml in media, spesso in Italia la quantità è ancora più ridotta) ci sono circa 80 milligrammi di caffeina, contro i circa 90 milligrammi in una tazza di caffè americano percolato (200 ml). In una tazza di tè (220 ml) ci sono poco meno di 50 milligrammi di caffeina, mentre in una lattina di Coca-Cola (330 ml) i milligrammi sono circa 40. I dati sono inevitabilmente approssimativi, perché molto dipende dal modo in cui viene preparato il caffè o il tè e dalla tipologia di materia prima utilizzata.
    (EFSA)
    L’EFSA nella sua valutazione del rischio indica il consumo di singole dosi di caffeina fino a 200 milligrammi come non preoccupante «in termini di sicurezza per la popolazione adulta e sana in generale». Nelle analisi ha comunque rilevato come una dose più bassa, intorno ai 100 milligrammi, possa avere qualche effetto sulla durata e la qualità del sonno in alcune persone, specialmente se il consumo avviene poco prima di dormire. La reazione è però altamente soggettiva e varia molto da individuo a individuo, quindi stabilire una soglia in generale non è molto semplice.
    Se si valuta l’assunzione totale di caffeina nel corso di una giornata, l’EFSA dice che le persone adulte e sane non corrono particolari rischi fino a 400 milligrammi. Questa quantità equivale in media a circa 5 tazzine di caffè espresso e a poco più di quattro tazze di caffè americano. Per le donne in gravidanza la valutazione del rischio è diversa e si assesta su un consumo giornaliero fino a 200 milligrammi.
    Le quantità indicate dall’EFSA sono riferite a un consumo responsabile e per ridurre i rischi di avere complicazioni, temporanee o nel lungo periodo, legate agli effetti tossici della caffeina. Le dosi stimate alle quali questa sostanza diventa letale sono comunque molto più alte, anche se non c’è grande consenso nella letteratura scientifica. Indicativamente, si ritiene che il consumo di 10 grammi (cioè 10mila milligrammi) di caffeina in un’unica soluzione possa rivelarsi letale. A seconda delle modalità di preparazione, si dovrebbero quindi assumere tra le 100 e le 150 tazzine di caffè espresso in un giorno. LEGGI TUTTO

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    Vivere tra microbi e sporcizia da bambini rende più resistenti alle malattie?

    I primi anni di vita per i bambini sono una costante scoperta, non solo di suoni, forme, sapori e colori, ma anche di microbi che entrano di continuo in contatto con il loro organismo. I bambini infatti toccano qualsiasi cosa, camminano tenendo le mani a terra, che poi si portano alla bocca quando provano ad assaggiare gli oggetti più disparati. Alcuni genitori cercano di ridurre il più possibile questi incontri ravvicinati con superfici e oggetti sporchi, altri se ne preoccupano meno e seguono un modo di dire che si sente spesso: “Niente di male, sono tutti anticorpi in più”.È una convinzione che deriva da un’ipotesi dibattuta da tempo in ambito medico, secondo cui l’esposizione a particolari microrganismi nei primi anni di vita è essenziale per sviluppare meglio il sistema immunitario ed evitare alcuni disturbi in età adulta come allergie e asma, che derivano da un sua reazione anomala. Capire se sia davvero così non è però semplice.
    Tra i primi a esporre quella che sarebbe poi diventata nota come “ipotesi dell’igiene” ci fu l’epidemiologo britannico David P. Strachan, che nel 1989 scrisse un articolo sul British Medical Journal nel quale esplorava il rapporto tra le condizioni igieniche in cui crescevano i bambini e la loro salute in età adulta. Lo studio di Strachan si inseriva in un dibattito più ampio sulla cosiddetta “rivoluzione dell’igiene” iniziata circa due secoli fa specialmente in Europa e nel Nord America.
    L’introduzione degli impianti fognari, la periodica pulizia degli ambienti urbani, maggiori attenzioni nella preparazione dei cibi evitando contaminazioni e una crescente promozione dell’igiene personale avevano portato a un netto miglioramento delle condizioni di vita, anche grazie alla scoperta delle cause di malattie ancora molto comuni e letali nell’Ottocento come il colera e il tifo. Le nuove conoscenze permisero soprattutto nella prima metà del Novecento di ridurre sensibilmente i casi di numerose malattie infettive, ma secondo l’ipotesi dell’igiene privarono il nostro organismo di incontri con alcuni microorganismi importanti per il sistema immunitario.
    Rifacendosi ad analisi precedenti, Strachan aveva segnalato come nella prima metà del secolo scorso fosse emersa una quantità crescente di allergie e malattie infiammatore croniche, che erano meno presenti nel periodo prima della rivoluzione dell’igiene. Nel suo articolo, prese in considerazione soprattutto la rinite allergica (quella che viene chiamata a volte “raffreddore da fieno”) e alcune forme di eczema di natura allergica. Strachan osservò che queste malattie erano meno frequenti nelle famiglie con molti figli rispetto a quelle con figli unici, ipotizzando che fosse la prolungata convivenza tra bambini a rendere più probabili contaminazioni e contagi, con esiti positivi per le difese immunitarie.
    Come abbiamo ampiamente sperimentato negli ultimi anni di pandemia, le capacità del sistema immunitario cambiano di continuo a seconda dei patogeni (come virus e batteri) che entrano nel nostro organismo, causando disturbi e malattie. In presenza di un patogeno nuovo, la prima risposta immunitaria è generica e talvolta eccessiva, mentre col tempo il sistema immunitario si specializza e sviluppa capacità di difese più specifiche, che può impiegare con maggiore efficacia nel caso avvenga una nuova infezione con lo stesso patogeno, o con un qualcosa che gli somiglia molto come una variante. I vaccini, come quelli che si fanno contro le malattie infantili o l’influenza, servono a innescare questo meccanismo di specializzazione, evitando di farlo ammalandosi con tutti i rischi che potrebbero derivarne.
    In altri casi il sistema immunitario non funziona invece come previsto e attacca tessuti dell’organismo, causando varie tipologie di malattie definite “autoimmuni” o “immunomediate” a seconda delle circostanze. Molte allergie derivano da una reazione anomala a una sostanza normalmente innocua, che viene invece ritenuta pericolosa.
    Nei primi anni di vita, il sistema immunitario è relativamente più reattivo e versatile, di conseguenza riesce ad adattarsi più velocemente e a sviluppare le difese contro i patogeni. Per questo Strachan riteneva che alcune malattie allergiche potessero svilupparsi più facilmente tra i bambini che facevano esercitare meno il loro sistema immunitario, semplicemente perché vivevano poco con altri bambini e in condizioni che favorissero il contatto con patogeni, come i virus del raffreddore e altri microrganismi.
    Dopo la pubblicazione del proprio studio alla fine degli anni Ottanta, l’ipotesi di Strachan ottenne un certo successo, ma come spesso avviene in questi casi fu in parte travisata applicandola a molte altre malattie e spinta da alcuni verso eccessi rischiosi. Le persone contrarie alle vaccinazioni, per esempio, sfruttarono a modo loro l’ipotesi dell’igiene per giustificare la pratica di mettere insieme bambini sani e malati, in modo da rendere più probabile il contagio di malattie infantili come morbillo, parotite (gli “orecchioni”), rosolia e varicella. È una cosa che alcuni fanno ancora oggi, ma è rischiosa considerato che quelle malattie possono portare a gravi complicazioni, talvolta letali, che non si verificano invece attraverso la vaccinazione.
    Una ventina di anni fa l’ipotesi dell’igiene fu aggiornata, o per meglio dire integrata, con quella che fu poi definita “ipotesi dei vecchi amici”: dice che nei primi anni di vita i benefici per il sistema immunitario non derivano tanto dall’esposizione ai virus delle malattie più conosciute e diffuse, nella maggior parte dei casi risalenti a circa diecimila anni fa, quanto dal contatto con microrganismi che esistevano già ai tempi dei cacciatori-raccoglitori. Cacciare e raccogliere ciò che si trovava fu per lunghissimo tempo l’unica forma di sussistenza per le specie umane, compresi gli Homo sapiens comparsi circa 200mila anni fa. In quella lunga fase il sistema immunitario era in piena evoluzione e sviluppò una forte interdipendenza con alcuni microrganismi, senza i quali non può funzionare adeguatamente.
    Tra i principali sostenitori di questa ipotesi c’è l’immunologo britannico Graham Rook, che ha dedicato molti studi e ricerche per ricostruire il modo in cui si è evoluto e si sviluppa il sistema immunitario in ogni persona. Nei suoi lavori, Rook ha segnalato che probabilmente i microrganismi che hanno un ruolo importante per sviluppare le difese immunitarie sono quelli che vivono sulla pelle, nell’apparato respiratorio e nell’intestino, oltre a quelli che si trovano naturalmente negli ambienti popolati dagli esseri umani e ad alcuni virus. Alcuni di questi causano infezioni croniche verso le quali c’è stato un adattamento da parte del sistema immunitario nel corso dell’evoluzione, rendendo possibile lo sviluppo di alcune nuove importanti capacità di difesa.
    L’ipotesi dei vecchi amici ha ricevuto una decina di anni fa un’ulteriore integrazione con la cosiddetta “ipotesi della diversità microbica”, secondo cui è la varietà di batteri, funghi e virus che popolano il nostro intestino e altre parti dell’organismo (il cosiddetto “microbiota”) a essere un fattore chiave nello stimolare il sistema immunitario. I numerosi incontri con i microbi nei primi anni di vita aiuterebbero le nostre difese immunitarie a diventare più abili nell’identificare le minacce, sviluppando una memoria immunitaria e la capacità di affrontarle in modo più specifico ed efficiente nel caso di nuove infezioni.
    È comunque difficile ricostruire come si sia evoluto il nostro sistema immunitario nel corso di centinaia di migliaia di anni, considerato anche che ancora oggi non conosciamo perfettamente tutti i meccanismi che lo fanno funzionare. Ci sono indizi sul fatto che possa comunque esserci un legame tra l’esposizione ai microbi e l’avere o meno allergie e altri problemi di salute. Ci sono però moltissime variabili da tenere in considerazione ed è complicato trovare indizi e fare misurazioni.
    Pur consapevoli di queste limitazioni, nel tempo alcuni gruppi di ricerca si sono dedicati all’analisi di indicatori come le condizioni economiche e gli stili di vita. È per esempio emerso che allergie e malattie autoimmuni tendono a essere meno presenti nei paesi in via di sviluppo, dove le condizioni igieniche sono spesso diverse da quelle dei paesi più ricchi nei quali di solito le famiglie sono anche meno numerose. Alcuni studi hanno segnalato che le persone che migrano dai paesi meno ricchi a quelli più sviluppati tendono a sviluppare malattie legate a uno scorretto funzionamento del sistema immunitario, che aumentano all’aumentare del tempo trascorso lontano dal paese di origine. Si ipotizza che questo aumento sia dovuto al cambiamento della dieta e a una modifica del microbiota, ma ci sono ancora molti aspetti da chiarire, anche perché i dati sono spesso carenti e potrebbero semplicemente esserci meno diagnosi di allergie.
    Per diverso tempo si è inoltre ipotizzato che un uso eccessivo degli antibiotici favorisse una riduzione nella versatilità del sistema immunitario ad affrontare le minacce. Gli antibiotici hanno spesso un effetto ad ampio spettro, di conseguenza distruggono parte dei batteri che vivono nel nostro intestino e che hanno un ruolo fondamentale nei processi di digestione e di assimilazione dei nutrienti. Alcuni studi notarono che tra chi aveva utilizzato antibiotici in giovane età c’era una maggiore quantità di casi di asma, ma l’effetto osservato potrebbe essere stato falsato dal fatto che gli antibiotici sono talvolta usati con maggiore frequenza tra i bambini asmatici, che avevano quindi già questo problema di salute.
    Trovare conferme o smentite all’ipotesi dell’igiene non è semplice, nemmeno se si prova a ridurre la quantità di variabili, per esempio studiando il fenomeno su modelli diversi dagli esseri umani, ma che potrebbero offrire qualche nuovo elemento. Un gruppo di ricerca svedese ci ha provato con i topi, come ha raccontato lo scorso anno sulla rivista scientifica Science Immunology.
    Per lo studio erano stati selezionati due gruppi di topi. Il primo era costituito unicamente da topi di laboratorio, che vivevano quindi in un ambiente pulito ed erano nutriti con cibo controllato e privo di contaminazioni. Il secondo gruppo era invece costituito da topi nati da impianti embrionali di topi di laboratorio in madri prelevate da contesti selvatici. Il gruppo di ricerca voleva ridurre il più possibile le variabili e non lo avrebbe potuto fare se avesse raccolto direttamente i topi dall’ambiente esterno, visto che avrebbero avuto tutti precedenti diversi. Si era quindi pensato di mitigare il problema ricorrendo a madri surrogate, in modo da riprodurre comunque la trasmissione di microrganismi importanti che avviene dalla madre ai figli con il parto.
    I topi del secondo gruppo erano stati allevati in un contesto meno asettico rispetto ai topi del primo gruppo, con gabbie contenenti paglia, compost e altri materiali dove abbondano i microrganismi. I topi allevati in questo modo avevano inoltre varie occasioni di incontro tra loro, per aumentare ulteriormente la probabilità di scambi di microbi e germi.
    Raggiunta l’età adulta, i topi del secondo gruppo avevano un microbiota molto più simile a quello che si osserva tipicamente nei loro simili in contesto selvatico, rispetto ai topi del primo gruppo tenuti in ambienti più asettici del laboratorio. Eppure, nonostante questa marcata diversità, il gruppo di ricerca non aveva riscontrato una minore ricorrenza delle allergie tra i due gruppi. I topi del secondo gruppo avevano inoltre mostrato di sviluppare una risposta immunitaria molto più forte alle sostanze per le quali erano allergici, con una maggiore produzione di infiammazione delle loro vie aeree e una più alta produzione di muco.
    L’esperimento è stato accolto con interesse, ma va comunque inserito nel contesto più ampio degli studi sull’ipotesi dell’igiene e del dibattito che si porta dietro. I topi sono un valido modello per condurre test di questo tipo, ma non sono esseri umani e hanno ovviamente caratteristiche diverse che riguardano anche i meccanismi del loro sistema immunitario.
    Venticinque anni dopo avere pubblicato la propria ipotesi sull’igiene, Strachan scrisse un commento sul British Medical Journal per ricordare che alcune delle idee che aveva espresso nel suo studio erano state travisate e che l’uso stesso della formulazione “ipotesi dell’igiene” era improprio. Segnalò che nonostante fossero passati molti anni non erano ancora emersi elementi a sufficienza per approfondire le conoscenze su allergie e condizioni ambientali nei primi anni di vita, in modo da trovare eventuali legami tra i due fenomeni.
    A distanza di molti anni, luoghi comuni e informazioni scorrette su cosa sia davvero l’ipotesi dell’igiene hanno in alcuni casi portato a sottovalutare l’importanza dell’igiene in molti contesti. Alcuni esperti hanno sollevato il problema di un minore controllo delle condizioni igieniche negli ambienti domestici dove crescono i bambini, per esempio, mettendo a rischio pratiche che negli ultimi due secoli hanno contribuito in modo significativo a ridurre alcuni tipi di infezioni.
    A oggi non ci sono infatti elementi per ritenere che le buone pratiche per mantenere puliti gli ambienti possano avere un certo effetto nel ridurre allergie e altri problemi di salute cronici legati al sistema immunitario. Ci sono invece elementi per ritenere che minori attenzioni all’igiene, iniziando con un lavaggio non adeguato delle mani e uno scarso ricambio d’aria negli ambienti chiusi, facciano aumentare il rischio di trasmissione di malattie infettive, anche molto pericolose. LEGGI TUTTO