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    Parla il generale Jean: “Perché l’esercito russo è stato battuto…”

    L’ipotesi che l’Ucraina possa diventare un nuovo Vietnam o un nuovo Afghanistan per la Russia si fa ogni giorno più concreta. Il presidente Vladimir Putin, molto probabilmente, non aveva considerato che il conflitto potesse durare così tanto tempo, sottovalutando la strenua difesa del popolo ucraino che, sembra, stia logorando l’esercito russo. Il generale Carlo Jean, esperto di strategia, docente e opinionista ha espresso le sue preoccupazioni al quotidiano Il Sussidiario. “L’esercito russo – ha dichiarato – non è mai stato pensato per una guerra a lunga scadenza con combattimenti nelle città, ma è stato organizzato per eventuali conflitti in campo aperto, da qui il grande numero di mezzi corazzati a disposizione, mentre la fanteria può schierare un numero limitato di uomini”.Sarebbe proprio questo il motivo principale del cambio di strategia da parte di Putin, il quale, non riuscendo a vincere le battaglie con i soldati città per città, ha deciso di bombardare in maniera indiscriminata anche i civili, nel tentativo di creare terrore e costringere gli ucraini ad arrendersi. Lo stesso sistema è stato utilizzato in Cecenia e in Georgia, Negli ultimi giorni a Kiev e in altri centri ucraini sono stati bombardati supermercati e altri obiettivi frequentati dai civili, un’escalation di violenza che sta mettendo a dura prova la popolazione indigena. Secondo il generale Jean, l’esercito russo non è organizzato per la guerriglia di quartiere. “I soldati di Putin – ha spiegato – sono stati addestrati per una eventuale guerra contro la Nato, un conflitto in campo aperto, non nei centri urbani. Non è un caso che il numero delle truppe di fanteria sia piuttosto limitato, mentre non lo è quello dei carri armati e dei mezzi corazzati in generale”.L’obiettivo della Russia è quello di occupare tutta la linea costiera affinché unisca in un solo blocco russo i territori che vanno da Odessa al Donbass, ma la strada sembra in salita per la forte resistenza degli ucraini. Ciò ha infastidito Putin che ha già rimosso dal loro incarico due comandanti dello Stato maggiore dell’esercito. Nelle ultime ore sta girando voce che la Russia starebbe utilizzando armi chimiche e biologiche, ma il generale Jean non sembra credere a questa possibilità. “Lo escluderei – ha detto – sono incontrollabili e, considerando anche i venti che spirano in Ucraina, sarebbe un autogol”. LEGGI TUTTO

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    Sì a guerra e atomica per l’86% dei russi. Ecco il Paese di Putin

    Sei russi su sette (l’86,6% del campione intervistato) sostengono in principio un’eventuale aggressione militare di Mosca a Paesi dell’Unione Europea. Non solo: i tre quarti degli intervistati non sono contrari nemmeno all’impiego da parte della Russia di armi nucleari. Lo rivela un sondaggio pubblicato da Active Group, un gruppo di ricerca ucraino. Il campione è stato consultato tenendo conto delle leggi restrittive russe che obbligano a usare la dicitura «operazione speciale» al posto di «guerra» e a definire «nazisti» le forze militari difensive ucraine.«L’impressione generale che abbiamo ricavato dall’indagine spiega Andriy Eremenko, che ha fondato Active Group nel 2011 è che i russi che hanno accettato di rispondere alle nostre domande dimostrino aggressività non solo verso l’Ucraina, ma anche nei confronti dell’Ue». I tre quarti del campione approverebbero l’eventuale estensione dell’attuale «operazione speciale in Ucraina» a ulteriori Paesi, e indicano nella Polonia il bersaglio preferito. L’idea di recuperare con la forza l’impero sovietico perduto nel 1991 con la fine dell’Urss sembra sorridere alla maggioranza dei russi: oltre alla Polonia (indicata dal 75,5% degli intervistati), essi vorrebbero vedere i loro soldati nella veste di invasori e occupanti nelle tre Repubbliche baltiche (41%), in Bulgaria, Romania, Ungheria e nella ex Cecoslovacchia (39,6%). Ma anche la Georgia (32,4%) e la Moldavia (28,8%) dovrebbero «tornare alla madrepatria», mentre meno del 5% si azzarda ad approvare un attacco anche a Paesi dell’Europa occidentale. La gran parte dei russi, dunque, pensa che i Paesi dell’Europa orientale che hanno scelto ormai 30 anni fa di sfuggire al dominio russo e di far parte della comunità occidentale si trovino in una specie di libertà vigilata, e che sarebbe pieno diritto della Russia rimetterli a forza sotto il proprio tallone. Solo il 17,6% del campione ha preferito non rispondere alle domande sull’estensione della «influenza militare russa» all’estero, e un insignificante 1,4% ha risposto che la Russia non dovrebbe espandersi: assai meno comunque di quanti sostengono l’opportunità di aggredire gli stessi Stati Uniti (4,6%), mentre c’è perfino un nocciolo duro di guerrafondai assoluti che asseconderebbe un tentativo di Putin di mettere sotto controllo il mondo intero (12,5%). Un secolo di ossessiva propaganda anti occidentale fatto salvo l’intervallo degli anni Novanta ha lasciato segni indelebili nell’opinione pubblica russa, anche se bisogna ricordare che Putin soffoca la libera informazione e inculca un’ideologia nazional-imperiale che ha ormai perfino riabilitato la sanguinaria figura di Stalin, presentato anche nelle scuole come artefice della grandezza nazionale. Senza poi dimenticare l’esistenza, soprattutto tra i giovani e i residenti nelle grandi città, di una coraggiosa minoranza chiaramente ostile al regime ma messa in condizione di non «disturbare il Manovratore» (vedi il destino di Aleksei Navalny). Ma l’aspetto più impressionante riguarda l’accettazione dell’arma nucleare per aggredire i Paesi vicini «se Putin avesse informazioni sul loro possibile uso contro la Russia»: dal 40,3% arriva un sì incondizionato, dal 34,3% una disponibilità parziale e solo dal 25,4% un no secco. Siamo ridotti a sperare che i vertici del regime siano più responsabili dei loro sudditi. LEGGI TUTTO

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    Perché ora Zelensky può vincere

    La guerra al tiranno nel 2022 e la resistenza nazionale Ucraina potrebbero essere un’occasione rivoluzionaria: l’Occidente potrebbe scendere dalla boria ideologica maturata dal secondo dopoguerra e pensare. Ma la vanagloria europea sull’unità trovata per sempre, sul glorioso anelito di democrazia che cambierà un mondo post Putin, può mettere a tacere tutte le scomode verità rivelate dal conflitto. Invece essere testimoni, come capita a me, di un Paese perennemente in guerra ma che aborre la guerra come ogni democrazia, è istruttivo, e suggerisce sincerità spietata. Vedersi piovere missili in testa, vivere in un Paese democratico e prospero in cui sono stati fatti almeno duemila morti in pochi anni con attacchi terroristici, e a cui sono state sferrate guerre da ogni parte, induce oggi tuttavia un pensiero ottimista: le piccole nazioni legate alla loro storia, alla loro cultura, ai loro eroi e libri, hanno una forza di resistenza straordinaria. L’Ucraina può vincere nonostante lo strazio. Zelensky, una specie di Isaac Babel post litteram, ebreo e cosacco, ce la può fare come Golda Meir o altri leader ebreo-ucraini scampati e combattenti. Certo lo sa anche lui dalla storia: non ci sarà aiuto sostanziale, nessun «arrivano i nostri», la solitudine è una lezione che da ebreo ha imparato, ma ha dalla sua la verità, come Israele. Putin è rimasto shoccato perchè aveva disegnato una realtà geopolitica inesistente, dove gli Ucraini erano Russi. Ma gli Ucraini non sono Russi, anzi hanno sempre cercato nessi a Occidente, nel bene e nel male, per sottrarsi alla Russia. Adesso la cultura europea per cui il nazionalismo era definitivamente infangato dal passato, deve capire che lo stato nazionale è portatore di libertà, non è nazifascista. Lo è invece l’imperialismo, che genera i mali attribuiti al nazionalismo. Gli esseri umani liberi combattono per la loro collettività coi loro eroi e le loro tradizioni, e le istituzioni – anche l’Ue! – devono rispettarli per sempre. Devono anche espellere senza pietà la stupida «cancel culture». C’è di più: durante la guerra abbiamo visto le teorie di genere in crisi, gli uomini sono rimasti a combattere, le mamme hanno preso per mano i bambini, e li hanno portati in salvo. Per aiutare la donna a essere libera e madre ci vuole oggi la magnifica ripresa di un femminismo deidelogizzato. Liberalismo, nazionalismo, tradizione, devono andare insieme, l’Europa deve separarsi dal linguaggio, la retorica socialista del sogno postbellico. La guerra è un altro testo da rileggere. I segnali di fumo pacifisti non fermano la cavalleria, e invece Putin va fermato. Qui, in Israele, il Paese non sopravviverebbe un giorno, se non sapesse vincere le guerre, se non coltivasse il valore. Ce ne vuole per resistere al rischio della vita dei propri figli. E non sopravviverebbe se i conservatori e liberal non combattessero insieme al bisogno. Beato il Paese che apprezza compatto i suoi eroi, non quello che non ne ha bisogno. Infine: i turchi, spiegava Bernard Lewis, non capivano che i cannoni troppo a prua sulle navi, col rinculo le rendevano instabili. Così furono affondati. Noi dobbiamo spostare i cannoni della democrazia, altrimenti l’impero europeo della libertà può andare in pezzi come quello ottomano. LEGGI TUTTO

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    Scandali e finanza, la riforma c’è ma il braccio di ferro non è finito

    La gestione degli immobili e l’intero sistema economico e finanziario della Santa Sede, dallo Ior (la banca vaticana), all’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica) fino al Governatorato (in pratica il governo della Città del Vaticano): è stata questa la partita più complessa e per molti aspetti dolorosa affrontata da Papa Francesco. Fin dall’inizio del suo Pontificato, Bergoglio ha affidato la delicata materia a uno dei suoi più fidati collaboratori, il cardinale George Pell, mettendo in moto un vero e proprio terremoto nel sistema della gestione delle finanze vaticane.Il primo atto è stata l’istituzione della Segreteria per l’Economia, dicastero ad hoc voluto per coordinare e controllare le politiche economiche e finanziarie dei vari organismi della Santa Sede e della Città del Vaticano. Segreteria e due organi collegati, Consiglio per l’economia e Ufficio del revisore generale sono stati creati con un «motu proprio» del febbraio 2014.Al vertice, con l’incarico di Prefetto, è stato nominato il già citato cardinale Pell, costretto però a dimettersi nel 2019 a causa del polverone scatenatosi in Australia per l’accusa di aver coperto alcuni casi di pedofilia. Pell finisce alla sbarra (poi, dopo un lungo iter giudiziario verrà assolto), il Papa lo sostituisce con padre Juan Antonio Guerrero Alves, gesuita, tuttora in carica.Altro compito importante è quello affidato al segretario generale, il numero due del «dicastero» per l’economia. Dal 2014 al 2018 il ruolo è stato affidato all’arcivescovo Alfred Xuereb, nominato poi nunzio apostolico in Corea e Mongolia. Ora l’incarico è ricoperto da un laico, Maximino Caballero Ledo, spagnolo di nascita e americano d’adozione. Sessantuno anni, sposato con due figli, una laurea in Economia all’Università Autonoma di Madrid, un master in Business Administration, presso l’IESE di Barcellona, ha lavorato per vent’anni in campo finanziario tra Spagna, Medio Oriente e Africa. È amico d’infanzia di padre Guerrero Alves, Prefetto della Segreteria, che lo ha voluto al suo fianco.Un intervento specifico, con l’obiettivo di riformare interamente l’organismo è stato attuato sullo Ior, l’Istituto per le opere di religione. Nel maggio del 2013, una società esterna, l’americana Promontory, ha avviato una ispezione su tutti i 18.900 conti per verificare l’adeguatezza agli standard di trasparenza e correttezza richiesti dalle norme internazionali. Da allora, oltre 1.200 conti sono stati chiusi. Nel 2013, per la prima volta nella storia l’Istituto ha pubblicato il suo bilancio.Di fronte a questi tentativi di riforma la Santa Sede ha però dovuto fare i conti con lo scandalo che ha coinvolto il cardinale Angelo Becciu, vero e proprio numero tre della Santa Sede, per anni una sorta di primo ministro, a lungo stretto collaboratore di Papa Francesco.Nel luglio del 2021 Becciu è stato citato in giudizio nell’ambito della vicenda legata agli investimenti finanziari della Segreteria di Stato a Londra, per l’acquisto di un immobile di lusso da 200 milioni di euro a Sloane Avenue, nel cuore della City. Dall’operazione il Vaticano ha ricavato, secondo il Financial Times, perdite nell’ordine dei 100 milioni di sterline. Becciu è accusato tra l’altro di peculato ed abuso d’ufficio, ma il dibattimento è ancora in fase preliminare e il Tribunale ha già accertato e sanzionato una serie di violazioni procedurali, eccepite dalle difese, anche nei confronti del Cardinale, che si è da sempre pubblicamente professato innocente da ogni accusa.AGGIORNAMENTOIn una prima versione questo articolo conteneva delle inesattezze sulla vicenda giudiziaria che coinvolge il cardinale Becciu. Ce ne scusiamo con l’interessato e con i nostri lettori. LEGGI TUTTO

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    BoJo, compleanno fatale. Indaga anche la polizia. E arriva l’ultimo dossier

    La giornata era iniziata male fin dal primo mattino per Boris Johnson. Mentre il premier britannico rimaneva sulle spine in attesa di conoscere i risultati del rapporto di Sue Gray sui festini tenutisi a Downing Street in tempi di lockdown, ieri il capo della polizia metropolitana Cressida Dick ha confermato l’apertura di un’indagine criminale sul caso. La notizia è arrivata durante una riunione di Gabinetto nel corso della quale, però, il premier non ha ritenuto di avvertire i ministri della cosa. L’apertura dell’inchiesta fa inoltre seguito alla notizia, data nella tarda serata di lunedì da Itv News, secondo cui nel giugno del 2020 – vale a dire nel corso della prima chiusura – più di una trentina di componenti dello staff del primo ministro si erano dati appuntamento nella stanza di Gabinetto portandosi dietro del cibo da picnic di Marks&Spencer per festeggiare il compleanno di BoJo, intonando ad alta voce «Happy Birthday» e consegnandogli una torta di compleanno. All’evento, che secondo il ministro dei Trasporti Grant Shapps «non era un party e si è concluso in una decina di minuti», c’erano anche la moglie del premier Carrie e l’interior designer Lulu Lyttle. «Chiaramente il primo ministro non l’aveva organizzato per ricevere una torta – ha dichiarato Shapps a Sky News – alcune persone si sono fatte avanti e hanno pensato che fosse una cosa da fare in occasione del suo compleanno. Certo non è stata una cosa saggia, nei confronti del premier», ha concluso Shapps, confermando la fiducia nel suo leader.Tornando all’indagine di Scotland Yard, sempre ieri un rappresentante del primo ministro ha dichiarato che Johnson «collaborerà con gli inquirenti di Scotland Yard, ma non ritiene di aver violato la legge». Di fatto, l’avvio della nuova indagine non ritarderà la diffusione del rapporto della Gray, il cui contenuto potrebbe essere stato inviato a Boris nella notte, o al massimo stamattina, con il primo ministro già al lavoro su una dichiarazione. D’altra parte Cressida Dick non ha sollevato alcuna obiezione alla sua pubblicazione. «È chiaro – ha proseguito il portavoce di Downing Street – che ogni diffusione del rapporto da parte dell’ufficio di Gabinetto potrebbe essere a questo punto soltanto parziale fino a che non viene conclusa l’indagine criminale». Si è appreso infatti che soltanto una parte dei presunti party verranno presi in considerazione dalla polizia e quindi il primo ministro potrebbe rendere pubblica esclusivamente la parte della relazione che non li riguarda. Ammesso che abbia mai considerato di farlo, dato che il premier era già stato accusato di voler rendere pubblico soltanto il minimo necessario.Intanto però l’opposizione cavalca con crescente successo l’indignazione della gente comune nei confronti di rappresentanti del governo che si sono creduti al di sopra delle regole imposte ai loro cittadini. Nella seduta parlamentare di ieri, il numero due del Labour Angela Rayner ha chiesto risposte urgenti in merito ai contenuti e all’uscita del rapporto di Susan Gray, affermando che «vista l’apertura della nuova indagine della polizia, sembra che siano avvenute a Downing Street delle azioni potenzialmente criminali». I fedelissimi di Johnson fanno quadrato attorno al premier sempre più in difficoltà, ma gli elettori sembrano avere le idee già piuttosto chiare. Secondo un sondaggio effettuato ieri dalla YouGov, ben il 62% del campione di intervistati ritiene che Boris debba dare immediatamente le dimissioni. Lui però, almeno per il momento, non ha alcuna intenzione di farlo. LEGGI TUTTO

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    Burkina Faso, golpe militare. In arresto il presidente

    Anche il Burkina Faso, come la Guinea e il Mali, è finito nella mani dei militari. Nel poverissimo Paese dell’Africa occidentale, schiacciato da quasi un decennio di brutalità jihadista, forze armate ribelli hanno destituito il presidente Roch Marc Christian Kaboré e dissolto il Parlamento. Accusando le autorità di aver fallito contro l’Isis e al Qaida, che hanno ucciso migliaia di persone e costretto un milione e mezzo a fuggire dalle proprie case. La crisi, scoppiata con episodi di ammutinamento in varie caserme e manifestazioni anti-governative in cui è stato dato alle fiamme il quartier generale del partito di Kaborè, è degenerata nello spazio di 24 ore con la notizia dell’arresto del presidente. Il capo dello Stato, insieme con il leader del Parlamento e alcuni ministri, sono stati condotti in una caserma della capitale Ouagadougou, hanno poi confermato diverse fonti di sicurezza, mentre nei pressi della residenza di Kaborè sono stati visti tre veicoli militari crivellati di proiettili e tracce di sangue. E decine di militari incappucciati si sono appostati davanti alla sede della tv pubblica. Nel caos è apparso un tweet del presidente che invitava «coloro che hanno imbracciato le armi a riporle». Impossibile però sapere se l’avesse scritto di suo pugno, mentre il partito denunciava persino un «tentativo di ucciderlo». In serata i golpisti hanno fatto chiarezza, annunciato in tv di aver preso il potere e di aver chiuso le frontiere. Con la promessa di rito di un «ritorno all’ordine costituzionale in un tempo ragionevole». LEGGI TUTTO

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    Abu Mazen in Israele da Gantz. Hamas: “Tradisce l’Intifada”

    È vecchia di dieci anni l’ultima visita amichevole di Abu Mazen in Israele: l’indirizzo quella volta era la residenza di Benjamin Netanayhu, in Rehov Balfour, e i sorrisi di Sarah a Mahmoud Abbas di nuovo invadono i teleschermi, in memoria. Invece, non esistono immagini dell’incontro nella casa di Rosh Haayin del ministro della Difesa israeliano Benny Gantz con il presidente palestinese. Gantz lo ha ricevuto alle 20,30 di martedì per due ore, con pochi intimi politici e tecnici. È stato un incontro importante? Si sono dette cose serie? Perché ha avuto luogo? Di sicuro gli ha dato molto importanza Hamas, Ismail Hanyie ha attaccato a testa bassa lo sgarro disgustoso dicendo che Abu Mazen «tradisce l’Intifada»; e per spiegare come si fa invece, dopo poche ore ha sparato oltre il confine a casaccio ferendo un civile e suscitando la reazione dell’esercito, che ha risposto e ferito tre persone.Hamas ha voluto rubare la scena al leader 87enne, ma per ora è lui che ha spiazzato l’opinione pubblica palestinese e israeliana che in questi giorni si era abituata al ritmo serrato di attentati a fuoco, coltelli, auto. Otto in due settimane, di cui due mortali. Il clima si è surriscaldato: gli attacchi palestinesi, come per esempio quello in due riprese, ai santuari come la tomba di Giuseppe, nei Territori, si alternavano alle risposte dei residenti dei territori infuriati. Gli attacchi con le pietre si erano moltiplicati, le reazioni israeliane sono andate oltre i limiti di legge. Insomma, un clima iper eccitato, quasi una nuova Intifada che ha preoccupato anche Abu Mazen: ogni situazione estrema è pane per i denti di Hamas, come si è visto nella guerra di maggio. Abu Mazen non ha interesse allo scontro generale: un paio di settimane fa due israeliani entrati per sbaglio a Ramallah sono stati sottratti al linciaggio dalla polizia palestinese.Come calmare il terreno? L’incontro ha trattato di questo: Abu Mazen, si sussurra, ha ribadito la sua intenzione di non arrivare a scontri fatali, di evitare l’escalation, di tenere saldo l’accordo di sicurezza che tante volte lo ha salvato da Hamas. Per gestire la situazione, ha ottenuto mezzi economici e facilitazioni, oltre a più controllo dei settler. Ha ottenuto più permessi di lavoro, più ingressi in Israele, il transfer di 100 milioni di shekel (25 milioni di dollari circa) delle tasse che Israele raccoglie, la legalizzazione dello status di 6mila cittadini del West Bank e di 3.500 di Gaza e altre «misure di fiducia».È già successo con gli accordi Abramo, che le misure pratiche, lo scambio, siano portatrici di buone speranze. Ma lo sfondo qui è Abu Mazen, un leader che, anche se certo, a differenza di Arafat, non tenta di affogare nel sangue Israele, pure dà prova da sempre di inimicizia inguaribile: è lui l’inventore delle peggiori forme di delegittimazione dello Stato Ebraico, che irrora di prensili falsità come quella dello «stato di apartheid» o della «illegalità internazionale» o della «pulizia etnica». Il suo passato di negatore della Shoah si mescola all’erogazione milionaria di stipendi per i terroristi, al sostegno degli shahid dai testi scolastici alla santificazione dei terroristi suicidi. È difficile crederlo un partner.La destra, all’interno dello stesso governo di Gantz, critica aspramente il suo ministro che ha «aperto la casa» a un nemico dichiarato, la sinistra, sempre dentro il governo, lo loda. E Bennett dice che non sapeva nulla dell’incontro. Ma è difficile crederlo. Gantz ha obiettivi condivisibili dall’attuale governo: sicurezza interna e simpatia americana. Biden ci tiene a riaprire il dialogo palestinese, mentre in questi giorni decide sulla trattativa con l’Iran degli ayatollah atomici. LEGGI TUTTO

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    Il contagio globale: Berlino chiude, Londra rimanda (ancora) la stretta

    Nonostante la situazione di Omicron nel Regno Unito sia «estremamente difficile», come ammesso dallo stesso Boris Johnson, con oltre 91mila contagi in un giorno e gli ospedali sotto pressione, il governo inglese prende tempo e non adotta nuove restrizioni. Nessun lockdown per il momento, nonostante gli esperti lo abbiano sollecitato.Ma il premier britannico non esclude ulteriori azioni nei prossimi giorni per contenere la diffusione della variante, i cui dati vengono monitorati «ora per ora». Dell’emergenza si è parlato ieri nel corso di una riunione ad hoc del consiglio dei ministri, al termine della quale il capo di Downing Street ha raccomandato cautela ai britannici, incoraggiandoli ancora una volta a vaccinarsi. Prima di Natale, dunque, si dovrebbero escludere ulteriori restrizioni. Si procede per ora con quelle già introdotte, come l’obbligo di indossare la mascherine sui mezzi pubblici e nei luoghi chiusi.La Gran Bretagna non è l’unico Paese a dover correre ai ripari per contenere il virus, alimentato dalla nuova variante molto più contagiosa della Delta. Gran parte dell’Europa è in allarme per l’impennata dei casi. In Germania il nuovo giro di vite potrebbe arrivare subito dopo le feste, forse già dal 28 dicembre. Se ne parlerà oggi al vertice tra governo federale ed i governatori dei Laender. Secondo le anticipazioni dei media tedeschi le restrizioni riguarderanno tutti i cittadini, anche i vaccinati e i guariti. Saranno chiuse le discoteche e i locali al chiuso, mentre ancora si discute delle misure da adottare per i grandi eventi sportivi: ferme le regole del «2G» e «2G+» (accesso solo a vaccinati e guariti con in più, in certi casi, l’obbligo di tampone), potrebbe essere decisa la riduzione delle capienze dal 30 al 50% e l’annullamento completo nelle zone dall’indice di contagio particolarmente alto. Nella bozza del documento che sarà discusso oggi si afferma che Omicron presenta «una rapidità di diffusione senza precedenti» che fa temere una forte sovraccarico delle strutture sanitarie. Dopo la conferenza Stato-Laender il testo uscirà probabilmente modificato, ma stando a quello trapelato ieri dal 28 dicembre si potranno incontrare privatamente «al massimo dieci persone, sia in ambienti esterni che interni». Una stretta in vista del Capodanno, dunque. Se sarà presente una persona non vaccinata, sarà possibile unire al massimo due nuclei familiari. «Ci occuperemo anche di limitazioni dei contatti privati dei vaccinati», ha confermato il cancelliere tedesco Olaf Scholz.Per contenere la variante, l’Austria ha deciso invece di limitare l’ingresso solo alle persone che hanno ricevuto la terza dose o a coloro che si sono vaccinati o sono guariti negli ultimi sei mesi (con l’aggiunta di un tampone molecolare negativo). Chi è senza tampone sarà posto in quarantena, finché non lo presenterà. Sono previste eccezioni per le donne in gravidanza, per chi non si può immunizzare per motivi sanitari e per i frontalieri. Il governatore del Land di Salisburgo, Wilfried Haslauer, ha annunciato intanto l’obbligo del controllo della regola del 2G (che prevede l’accesso ai luoghi pubblici solo per vaccinati o guariti) nel commercio al dettaglio, esclusi alimentari e farmacie. L’Olanda, invece, dove da mesi era saltata ogni restrizione, è tornata in lockdown. Il primo Paese in Europa a chiudere di nuovo tutto.Dall’altra parte dell’oceano, è a rischio la tradizionale festa di capodanno di Times Square, a New York: una decisione sarà presa prima di Natale, ha annunciato l’amministrazione della Grande Mela. LEGGI TUTTO