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    Gli animali hanno una cultura?

    Un recente articolo scientifico sui bombi, un genere di insetti della stessa famiglia delle api, ha fornito alcune informazioni rilevanti a sostegno di un’ipotesi da tempo discussa nel campo dell’etologia, la parte della biologia che studia il comportamento animale. L’ipotesi è che la capacità tipicamente umana di imparare dagli altri più di quanto sia possibile imparare da sé nel corso di una vita – condizione necessaria per la formazione di quella che definiamo “cultura” – sia una capacità condivisa con altre specie animali.Pubblicato a marzo sulla rivista Nature da un gruppo di ricercatrici e ricercatori della Queen Mary University of London e della University of Sheffield, l’articolo descrive i risultati di un esperimento in cui ai bombi era richiesto di risolvere un problema complesso su una specie di giradischi all’interno di una scatola. Per ottenere una ricompensa (una soluzione zuccherina) che percepivano ma non potevano raggiungere direttamente, i bombi dovevano compiere due azioni in sequenza: sbloccare un piatto girevole spingendo un fermo e poi ruotarlo in senso antiorario.
    I bombi, che sono considerati insetti prodigiosi nell’apprendimento sociale, non sono riusciti a risolvere il problema durante l’esperimento, nemmeno dopo un tempo di esposizione prolungata di 24 giorni. Alcuni ce l’hanno fatta solo dopo un addestramento: in pratica gli sperimentatori li hanno indotti ad apprendere il passaggio intermedio ponendo una prima ricompensa sul fermo che bisognava spingere per sbloccare la piattaforma. A quel punto i bombi sono riusciti a superare anche il secondo passaggio e ad arrivare alla soluzione zuccherina.
    Il risultato sorprendente e giudicato più significativo dai ricercatori è che un gruppo di bombi non addestrati, che come tutti gli altri non avevano inizialmente saputo risolvere il problema, è riuscito in seguito a capire come agire senza bisogno della prima ricompensa. Si è limitato ad apprendere dal comportamento di un bombo «dimostratore», cioè uno di quelli addestrati a superare il primo passaggio.

    La capacità degli animali non umani di compiere azioni nuove apprendendo dal comportamento dei propri simili è nota e studiata da decenni in specie come gli scimpanzé, i macachi, i corvi e le megattere. Il risultato descritto nello studio uscito su Nature è tuttavia considerato la prima prova della presenza di questa capacità sociale tra gli invertebrati, applicata alla soluzione di problemi particolarmente complessi: problemi cioè troppo difficili perché un solo individuo possa risolverli procedendo per tentativi ed errori.
    Alcuni commenti a questo esperimento e ad altri simili hanno interpretato i risultati come un’ulteriore prova della possibilità che la cultura, intesa come capacità di una specie di apprendere e diffondere comportamenti complessi in una popolazione, non sia un fatto unicamente umano. L’esempio dei bombi è significativo perché suggerisce che anche i comportamenti di insetti di cui sono note da tempo le sofisticate strutture sociali, come le api, potrebbero essere almeno in parte comportamenti appresi e non innati, che era l’ipotesi finora prevalente.

    – Leggi anche: Capiremo mai come ragionano gli animali?

    Sebbene nel linguaggio comune sia utilizzata in molti modi diversi, la parola “cultura” in etologia e in altre discipline affini ha un significato abbastanza preciso. Indica l’insieme di tradizioni comportamentali di una popolazione, cioè comportamenti tramandati attraverso l’apprendimento sociale e che persistono in un gruppo o in una società nel corso del tempo. I ricercatori hanno osservato nel regno animale numerosi comportamenti che soddisfano questa definizione di cultura cumulativa, contraddistinta da innovazioni sequenziali che si basano su altre precedenti.
    Quasi ogni parte della vita degli esseri umani si basa su conoscenze e tecnologie di questo tipo, troppo complesse per essere gestite da un individuo in modo indipendente e senza una tradizione culturale, appunto. Non sarebbe stato possibile altrimenti viaggiare nello Spazio, per esempio, ma nemmeno far funzionare un wc.
    Un articolo uscito a marzo sulla rivista Nature Human Behaviour ha presentato i risultati di un esperimento simile a quello con i bombi, ma condotto con gli scimpanzé da un gruppo di ricercatori dell’Università di Utrecht, nei Paesi Bassi, e del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, in Germania. Nel Chimfunshi Wildlife Orphanage, un rifugio per la fauna selvatica in Zambia, i ricercatori hanno lasciato a disposizione di una comunità di 66 scimpanzé, suddivisi in due gruppi, una scatola di noccioline che funzionava come una specie di distributore automatico.
    Gli scimpanzé potevano vedere e annusare le noccioline, ma per raggiungerle dovevano azionare il distributore raccogliendo una delle palline di legno lasciate dai ricercatori nelle vicinanze. La scatola aveva un cassetto a molla che bisognava aprire e tenere aperto, perché al suo interno si trovava un incavo in cui far scivolare la pallina per ricevere una manciata di noccioline. Dopo tre mesi in cui nessuno scimpanzé è riuscito a far funzionare il distributore, i ricercatori hanno selezionato in ciascuno dei due gruppi una femmina anziana per l’addestramento.
    «Non si può scegliere un animale a caso», ha detto Edwin van Leeuwen, uno degli autori dello studio, spiegando che per il successo dell’addestramento è importante selezionare individui audaci e di rango medio-alto all’interno del gruppo. Una volta finito l’addestramento delle due femmine, il distributore è stato riposizionato e lasciato di nuovo a disposizione dei due gruppi. Dopo due mesi trascorsi in presenza degli individui addestrati, 14 scimpanzé sono riusciti ad azionare il distributore osservando più volte il comportamento di un altro individuo che aveva capito come farlo funzionare.

    Sia lo studio sugli scimpanzé che quello sui bombi sono considerati importanti prove sperimentali dell’apprendimento sociale negli animali, di cui esistono da tempo numerose prove aneddotiche. La capacità di apprendere osservando e imitando il comportamento di altri individui è infatti ritenuto uno dei fattori che contribuiscono a determinare differenze comportamentali intraspecifiche tra gruppi diversi.
    Degli scimpanzé, per esempio, è ben nota la pratica di utilizzare dei bastoncini o dei fili d’erba per catturare le termiti, osservata e studiata fin dai primi anni Sessanta dall’etologa inglese Jane Goodall. Ma alla fine degli anni Novanta lo zoologo e psicologo Andrew Whiten scoprì insieme al suo gruppo di ricerca della University of St Andrews, in Scozia, e alla stessa Goodall che gli scimpanzé utilizzano le tecniche di cattura delle termiti in modo diverso a seconda del gruppo a cui appartengono. Quelli di alcune zone dell’Africa mangiano gli insetti direttamente dal bastoncino, mentre altri usano la mano libera per raccoglierli prima di mangiarli.

    – Leggi anche: Jane Goodall: dilettante, scienziata, attivista, simbolo

    In anni recenti è inoltre aumentata la quantità di prove dell’esistenza di comportamenti sociali, abitudini alimentari e persino canti e richiami diversi tra gruppi della stessa specie. Le differenze sono dovute a fattori ambientali, ma sono anche rese possibili dalla tendenza sociale ad accogliere e diffondere elementi di innovazione introdotti dai singoli individui all’interno dei gruppi. Prove di una simile evoluzione culturale sono state osservate tra le orche, i capodogli e altre cetacei, ma anche tra diverse specie di uccelli.

    Le differenze culturali all’interno di una stessa specie possono riflettersi anche in aspetti della vita sociale più stabili ed evidenti, come hanno mostrato alcuni ricercatori del dipartimento di biologia della Katholieke Universiteit Leuven, in Belgio, e del laboratorio di entomologia dell’istituto Embrapa, in Brasile, in un articolo pubblicato a marzo sulla rivista Current Biology. In un grande apiario a Jaguariúna, in Brasile, il gruppo di ricerca ha osservato 416 colonie di Scaptotrigona depilis, una specie di ape senza pungiglione diffusa in Sudamerica, per due lunghi periodi nel 2022 e nel 2023.
    Circa il 95 per cento delle colonie presentava favi costruiti in strati orizzontali sovrapposti, come torte nuziali su più livelli, il tipo di struttura preferita dalle Scaptotrigona depilis. Le restanti colonie presentavano invece una struttura a spirale: sia in un caso che nell’altro lo stile architettonico veniva mantenuto per molte generazioni di api. Inoltre non c’erano differenze nella velocità di costruzione, quindi nessun vantaggio in termini di efficienza nel seguire uno stile anziché l’altro.

    Per escludere che la differenza di stile derivasse da fattori genetici il gruppo di ricerca ha trapiantato alcuni individui da colonie i cui favi erano costruiti su più strati in colonie con favi strutturati a spirale, e viceversa. Prima di farlo ha svuotato le strutture ospitanti in modo da non lasciare adulti “indigeni” nella colonia, che avrebbero potuto influenzare il comportamento delle operaie importate. In breve tempo le api importate adottavano lo stile locale, che veniva ereditato anche dalle larve della colonia quando maturavano in adulti.
    Secondo il biologo Tom Wenseleers, a capo del laboratorio della KU Leuven che ha condotto la ricerca, le api potrebbero cambiare stile per far fronte all’accumulo di microscopici errori di costruzione commessi dai loro predecessori. Questo processo, in cui alcuni individui di insetti sociali influenzano indirettamente il comportamento di altri attraverso le tracce che lasciano nel loro ambiente, è definito stigmergia. Per avere conferma dell’ipotesi di Wenseleers il gruppo ha quindi introdotto micro-variazioni nella struttura di favi a strati orizzontali sovrapposti, e ha scoperto che in quel caso le api passavano effettivamente alla costruzione a spirale.
    I risultati dello studio sulle api a Jaguariúna suggeriscono che la trasmissione di differenti tradizioni nella costruzione dei favi attraverso le generazioni possa avvenire anche senza bisogno che gli individui siano direttamente istruiti dai loro coetanei. Permettono quindi di pensare alla cultura in termini più ampi, senza intenderla rigidamente come un insieme di comportamenti trasmessi da individuo a individuo fino a diventare caratteristici di un gruppo.
    Anche la trasmissione di comportamenti animali più complessi – come la costruzione delle dighe da parte dei castori o dei giacigli sugli alberi da parte degli scimpanzé – potrebbero avvenire in questo stesso modo indiretto, ha detto Whiten all’Economist. Ed è possibile che processi di stigmergia siano anche alla base della trasmissione di alcune tradizioni umane. LEGGI TUTTO

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    I progressi contro il cambiamento climatico, nel doodle di Google

    Caricamento playerCome ogni 22 aprile Google ha dedicato alla Giornata della Terra il suo doodle, cioè l’immagine che sostituisce il classico logo del motore di ricerca. La Giornata della Terra è la più nota e importante manifestazione al mondo sull’ecologia e sulla protezione dell’ambiente. Soprattutto negli ultimi anni però è diventato anche un momento per informare e sensibilizzare sul cambiamento climatico, e non solo sull’ambiente in generale.
    Il doodle di Google di quest’anno mostra i progressi fatti da diversi paesi nel tentativo di preservare alcuni luoghi dagli effetti negativi del cambiamento climatico. Le lettere del logo di Google sono state sostituite dalle foto di alcuni dei luoghi in tutto il mondo «in cui persone, comunità e governi lavorano ogni giorno per aiutare a proteggere la bellezza naturale, la biodiversità e le risorse del pianeta», ha spiegato la società. La lettera G mostra le isole Turks e Caicos; la prima O l’Arrecife Alacranes (la più grande barriera corallina del Golfo del Messico meridionale); la seconda O è il Vatnajökull, in Islanda, il più grande ghiacciaio d’Europa; l’altra G il parco nazionale di Jaú, nella foresta amazzonica brasiliana; la L mostra la Grande Muraglia Verde in Nigeria, un ambizioso progetto avviato nel 2007 per realizzare una grande striscia di vegetazione lunga più di 7mila chilometri dalla costa occidentale dell’Africa, in Senegal, a quella orientale, in Gibuti; la E infine mostra la riserva naturale delle isole della regione di Pilbara, nell’Australia occidentale.

    La storia della Giornata della TerraLa Giornata della Terra fu indetta per la prima volta dalle Nazioni Unite nel 1970, quando ancora non si parlava di cambiamento climatico, seguendo gli intenti del movimento ecologista degli Stati Uniti. Tra gli ideatori della Giornata della Terra ci fu il senatore Democratico statunitense Gaylord Nelson, che aveva già organizzato una serie di incontri e conferenze dedicati ai temi dell’ambiente.
    Tra gennaio e febbraio del 1969 a Santa Barbara, in California, avvenne uno dei più gravi disastri ambientali degli Stati Uniti, causato dalla fuoriuscita di petrolio da un pozzo della Union Oil: l’incidente portò Nelson a occuparsi in modo più attento e continuativo delle questioni ambientali, per portarle all’attenzione dell’opinione pubblica, ricalcando quanto avevano fatto i movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam.
    Il 22 aprile 1970 si tenne la prima Giornata della Terra, cui parteciparono milioni di cittadini statunitensi, con il coinvolgimento di migliaia di college, università, altre istituzioni accademiche e associazioni ambientaliste. Fu anche istituito l’Earth Day Network (EDN), un’organizzazione diventata poi internazionale per coordinare le iniziative dedicate all’ambiente durante tutto l’anno.
    Considerato il successo e l’interesse intorno alla Giornata della Terra, l’anno seguente le Nazioni Unite ufficializzarono la partecipazione all’organizzazione, dando nuova visibilità e rilievo all’iniziativa. In oltre 45 anni, la Giornata della Terra ha contribuito in modo determinante allo svolgimento di iniziative ambientali in tutto il mondo che, nel 1992, portarono all’organizzazione a Rio de Janeiro del cosiddetto Summit della Terra, la prima conferenza mondiale dei capi di stato sull’ambiente. Da allora la Giornata della Terra è anche diventata l’occasione per divulgare informazioni scientifiche, e rendere più consapevoli le persone sui rischi che comporta il riscaldamento globale e sulle soluzioni che possono essere adottate per contrastarlo.

    – Leggi anche: Il cambiamento climatico, le basi LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    I bulldog francesi – come quello che in questa raccolta passa un po’ di tempo con il suo proprietario su una panchina a Pechino – sono una delle razze di cani classificate come brachicefale, cioè con il cranio schiacciato: il fatto di avere il cranio più largo che lungo fa sì che in questi cani i tessuti molli dell’apparato respiratorio, cioè quelli di naso, laringe e trachea, siano compressi e ostruiscano parzialmente le vie aeree. Per questo negli ultimi anni molti veterinari e organizzazioni per il benessere animale propongono di selezionarli in modo diverso, come spiegato qui. Tra gli altri animali fotografati in settimana c’è un altro cane, che corre tra i fiori, due cervidi, un orso bruno dell’Alaska, la lingua di una giraffa e una lucertola su un campo da tennis. LEGGI TUTTO

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    Con le alluvioni a Dubai c’entra il “cloud seeding”?

    Caricamento playerLe grandi inondazioni che hanno interessato gli Emirati Arabi Uniti, con alcune zone in cui sono stati registrati oltre 250 millimetri di pioggia (più di quanto piova solitamente in un intero anno nel paese), sono insolite per un paese famoso per le sue città costruite nel deserto. Talmente insolite che da un paio di giorni circolano teorie e ipotesi sul fatto che le piogge abbondanti e improvvise siano state causate da errori legati al “cloud seeding”, la pratica di indurre le nuvole a produrre più pioggia cospargendole di alcune sostanze.
    L’idea del cloud seeding (letteralmente “inseminazione delle nuvole”) nacque intorno alla fine della Seconda guerra mondiale e da allora le conoscenze intorno a questa pratica sono molto aumentate, anche se periodicamente emergono dubbi sulla sua efficacia e utilità. In estrema sintesi, ogni nuvola è formata da una miriade di minuscole goccioline di acqua, proveniente dai processi di evaporazione degli oceani, dei mari e dei corsi d’acqua, ma anche dell’acqua nel suolo e nella vegetazione in generale. Il vapore acqueo viene trasportato in alto nell’atmosfera dai venti (correnti ascensionali) e la pioggia si forma quando questo incontra i nuclei di condensazione, cioè minuscole particelle in grado di assorbire le molecole d’acqua fino alla formazione di gocce che per gravità tornano verso il suolo.
    I primi sperimentatori del cloud seeding si chiesero se non fosse possibile accelerare il processo o amplificarne gli esiti introducendo artificialmente nuclei di condensazione. Le prime esperienze furono effettuate con il ghiaccio secco (anidride carbonica nella sua forma solida) e in seguito con lo ioduro di argento, un composto con una struttura simile a quella dei cristalli di ghiaccio che si formano nelle nuvole, e che concorrono a fare aggregare le molecole d’acqua. Oggi si utilizzano tecniche simili e negli ultimi decenni sono stati sperimentati altri sali, più pratici da impiegare e non inquinanti.
    Le tecniche di cloud seeding sono state sviluppate soprattutto nei paesi interessati periodicamente dalla siccità, come avviene in alcune aree della Cina, oppure costruiti in zone desertiche come nel caso degli Emirati Arabi Uniti. Le prime esperienze negli Emirati risalgono a una trentina di anni fa e da allora il Centro nazionale di meteorologia (NCM) del paese ha svolto attività di ricerca e sperimentazioni, al punto da rendere il cloud seeding una pratica comune per provare a ottenere più pioggia facendo volare aerei che rilasciano i sali mentre sorvolano e attraversano le nuvole.
    Dubai, Emirati Arabi Uniti (REUTERS/Amr Alfiky)
    Dopo le alluvioni degli ultimi giorni, e in seguito alle numerose teorie circolate sui social network senza particolari prove, gli esperti di NCM hanno smentito la possibilità che le grandi piogge siano state causate dal cloud seeding. Prima o durante le grandi piogge non erano state svolte attività di questo tipo e Omar Al Yazeedi, il direttore generale di NCM, ha chiarito che: «Il punto centrale del cloud seeding consiste nel prendere di mira le nuvole nei loro primi stadi, quindi prima che si verifichino le precipitazioni. Effettuare attività di inseminazione durante una tempesta molto forte si rivelerebbe del tutto inutile».
    Numerosi esperti indipendenti e non coinvolti nelle attività di NCM hanno smontato le teorie circolate online sul cloud seeding, arrivando a conclusioni più o meno simili a quelle di Al Yazeedi. L’attività di inseminazione viene infatti effettuata su nuvole che altrimenti non produrrebbero pioggia o ne produrrebbero molto poca, non su sistemi nuvolosi più complessi e instabili che chiaramente produrranno forti piogge. Intervenire su questi ultimi non avrebbe alcuna utilità, oltre a rivelarsi una spesa inutile, visto che produrranno comunque grandi quantità di pioggia.
    Dubai, Emirati Arabi Uniti (AP Photo/Jon Gambrell)
    Durante le prime sperimentazioni del cloud seeding nel secondo dopoguerra si era valutata la possibilità di impiegare la pratica per produrre grandi eventi atmosferici, ma da tempo è diventato evidente che l’impatto dell’inseminazione delle nuvole è limitato e non può portare alla modifica di forti e complesse perturbazioni. Sugli Emirati Arabi Uniti e in particolare Dubai si è assistito a un anomalo transito di un fronte nuvoloso che ha scaricato in poco tempo grandi quantità di pioggia sul quale il cloud seeding sarebbe stato irrilevante, hanno segnalato diversi esperti.
    Lo scienziato del clima Daniel Swain ha detto al Guardian: «È importante capire le possibili cause della pioggia da record di questa settimana su Dubai e parte della penisola araba. Il cloud seeding ha avuto un ruolo? Probabilmente no! Ma che dire del cambiamento climatico? Probabilmente sì!». Diversi altri esperti come Swain hanno infatti segnalato che la perturbazione sugli Emirati è stata probabilmente esacerbata dagli effetti del cambiamento climatico, che negli ultimi anni ha reso più frequenti e potenti molti eventi atmosferici. Nelle prossime settimane saranno effettuati studi e analisi “di attribuzione” per verificare se il cambiamento climatico abbia avuto un ruolo, come sembra, nella produzione di precipitazioni così intense in poco tempo. LEGGI TUTTO

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    Dovremmo cambiare i cani col muso schiacciato, per il loro bene

    Qualche settimana fa in Germania c’è stata una piccola polemica riguardo a una proposta di legge che, secondo alcuni articoli sensazionalistici, avrebbe vietato l’allevamento dei bassotti. In realtà il disegno di legge, promosso dai Verdi tedeschi – uno dei partiti di governo – non prevede nulla di così prescrittivo: semplicemente se fosse approvato proibirebbe di far riprodurre cani con caratteristiche fisiche che causano sofferenza agli animali, problemi di salute e una bassa aspettativa di vita. Nessuna specifica razza canina verrebbe vietata, si cercherebbe solo di evitare la diffusione di certi tratti estremi, come zampe eccessivamente corte o musi eccezionalmente schiacciati.Negli ultimi anni i problemi di salute particolarmente sofferti dai cani di certe razze sono stati una questione abbastanza discussa in diversi paesi, europei e no, anche con orientamenti ben più rigidi di quello tedesco. Nei Paesi Bassi ad esempio è in discussione da più di un anno una proposta di legge per vietare veramente il possesso di certi tipi di cani (non dei bassotti), oltre alla diffusione delle loro immagini nelle pubblicità e sui social network. È invece più permissiva la proposta di regolamento della Commissione Europea a proposito del benessere di cani e gatti presentata lo scorso dicembre, che dice solo che gli allevatori devono provvedere a evitare che «le strategie di riproduzione» causino la trasmissione di caratteristiche «nocive».
    In particolare la proposta di regolamento europeo «non osta alla selezione e alla riproduzione di cani e gatti brachicefali», cioè con il cranio schiacciato, come carlini, bouledogue francesi e Cavalier King Charles spaniel. Sono tra le razze di cani che secondo i veterinari hanno più problemi sanitari gravi dovuti alla loro conformazione fisica. Nella sua versione attuale la proposta di regolamento impone solo che i «programmi di selezione o riproduzione riducano al minimo le conseguenze negative che i tratti brachicefali hanno sul benessere».
    Un Cavalier King Charles spaniel durante una competizione di una mostra canina a New York, l’8 maggio 2023 (AP Photo/John Minchillo)
    Nel mondo esistono più di 300 diverse razze di cani. Appartengono tutte alla stessa specie, ma possono avere tratti fisici diversissimi che sono stati selezionati artificialmente nei secoli dalle persone, facendo accoppiare cani simili tra loro. «L’obiettivo della selezione era specializzare i cani in base a determinate caratteristiche: ci sono cani da difesa, cani da caccia, cani da compagnia e via dicendo», spiega Marco Melosi, presidente dell’Associazione nazionale medici veterinari italiani (ANMVI), «ma non si è mai fatta tanta attenzione a quelle che erano le conseguenze negative della selezione».
    Nel caso delle razze brachicefaliche è stata selezionata una forma del muso che si ritiene piaccia a molte persone perché ricorda le facce dei bambini. Il primo a ipotizzarlo fu l’etologo e psicologo austriaco Konrad Lorenz, premio Nobel per la medicina nel 1973, noto soprattutto per i suoi studi sul comportamento di cani e uccelli. Nel 1943 Lorenz teorizzò che l’aspetto che ricorda quello dei bambini piccoli, il cosiddetto Kindchenschema, porta gli esseri umani a provare affetto per gli animali non umani che lo mostrano, oltre all’impulso di prendersene cura.
    Quale che sia la ragione per cui piacciono molto a tante persone, carlini e bouledogue francesi sono razze molto popolari in questi anni, tanto che le proposte legislative pensate per i loro problemi di salute a volte prevedono divieti di diffonderne le immagini sui social network. Sono anche molti gli influencer che hanno cani di queste razze – in Italia era piuttosto conosciuta la bouledogue francese di Chiara Ferragni, morta nell’estate del 2023 per un tumore.
    Una bouledogue francese a Londra, il 18 novembre 2023 (AP Photo/Kirsty Wigglesworth)
    I problemi legati alla brachicefalia non sono gli unici legati alla selezione delle razze, ma sono particolarmente dannosi e senza interventi chirurgici possono causare la morte prematura degli individui in cui sono più gravi. Il fatto di avere il cranio più largo che lungo fa sì che in questi cani i tessuti molli dell’apparato respiratorio, cioè quelli di naso, laringe e trachea, siano compressi e ostruiscano parzialmente le vie aeree. Per questo sono anche detti cani che vivono “con un filo d’aria”. Il loro disagio legato alla respirazione si aggrava quando le temperature sono più alte perché i cani disperdono il calore corporeo ansimando: i brachicefali possono espirare poca aria alla volta e per questo patiscono molto il caldo.
    Molto spesso poi succede che sviluppino una polmonite legata al vomito, la cosiddetta polmonite ab ingestis. Ogni volta che rimettono, questi cani rischiano che un po’ di vomito finisca nella trachea, che è compressa vicino all’esofago, e da lì nei bronchi, dove può causare un’infezione.
    Giulia Corsini, veterinaria specializzata in emergenze che lavora in un ospedale vicino a Cambridge, nel Regno Unito, dice che ogni settimana si trova ad avere a che fare con cani brachicefali che hanno problemi respiratori acuti e a cui deve essere fornito più ossigeno. Corsini ha descritto un caso tipo di polmonite ab ingestis in un libro pubblicato da poco, Salvare gli animali (Utet), e dice che «tra i cani che più di frequente arrivano nei reparti di emergenza ci sono carlini e Bulldog con problemi respiratori».
    I veterinari possono sottoporre questi cani a interventi chirurgici correttivi al naso o al palato che li aiutino a respirare meglio, ma non è una cosa da poco né per i cani, né per i loro proprietari. Anche dal punto di vista economico: tra esami del sangue, radiografie, TAC e operazioni si possono spendere diverse migliaia di euro. A queste vanno aggiunte spesso altre spese per altri problemi legati alla brachicefalia come il sovrappeso causato dal fatto che faticando a respirare i cani non fanno molto moto. Possono poi esserci problemi secondari gastrointestinali dovuti all’aumento della pressione intratoracica come ernia iatale, e problemi legati agli occhi sporgenti, come le ulcere corneali. Anche avere uno spazio insufficiente per i denti può portare disagi.
    «Nel Regno Unito i veterinari portano avanti una campagna educativa martellante sui rischi legati a queste razze», racconta Corsini, «si potrebbe dire che dal punto di vista economico vada contro il nostro interesse, visto che tutti i problemi di questi cani comportano grandi spese, ma, appunto perché ci importa molto del benessere dell’animale, suggeriamo di pensare ad altre razze o quantomeno di scegliere gli individui con una conformazioni anatomica più normale».
    In Italia è stata fatta una proposta di legge pensata per vietare alcune pratiche relative alla selezione di certe caratteristiche fisiche dei cani, ma attualmente non esistono misure in vigore che impongano qualcosa di specifico agli allevatori.
    Un carlino a Berlino, il 3 agosto 2013 (AP Photo/Gero Breloer)
    Melosi spiega che si sta provando a risolvere i problemi di salute dei cani brachicefali con un altro approccio, meno radicale. Dal 2019 l’ANMVI sta portando avanti un progetto insieme all’Ente nazionale cinofilia italiana (ENCI), l’organizzazione che cataloga e fissa gli standard per le razze canine e gestisce le competizioni cinofile in Italia, per migliorare la salute di questi cani riducendo il numero di quelli che hanno le caratteristiche fisiche più estreme.
    Da parte loro i veterinari hanno condotto un’indagine nazionale per stimare quale sia la frequenza di difficoltà respiratorie nei cani brachicefali italiani e classificare i diversi problemi in base alla gravità. Nel frattempo hanno adottato una campagna di comunicazione con volantini appesi negli studi e nelle cliniche veterinarie per informare sui problemi di salute frequenti nelle razze brachicefaliche.
    Invece la commissione tecnica dell’ENCI sta lavorando per spingere gli allevatori a sottoporre i cani a due test studiati nel Regno Unito e in Francia per individuare i cani che possono sviluppare la sindrome ostruttiva delle vie aeree superiori (spesso chiamata BOAS dall’acronimo in inglese). È da circa sei mesi che si stanno portando avanti questi test, pensati per capire quali siano i cani più sani e sceglierli per la riproduzione, dunque per portare avanti le nuove generazioni delle razze in questione.
    In passato era stato fatto qualcosa di simile per un altro problema di salute diffuso in varie razze di cani, cioè la displasia dell’anca, che riguarda ad esempio i pastori tedeschi e i golden retriever: negli ultimi quarant’anni i cani con questo problema sono via via diminuiti grazie alle verifiche fatte dagli allevatori prima di farli riprodurre. Ci vorrà del tempo però perché si vedano degli effetti su larga scala, più di qualche generazione molto probabilmente.
    Sia Corsini che Melosi consigliano a chi proprio volesse avere un cane di una razza brachicefala di acquistarne uno col pedigree, cioè di cui si abbiano informazioni su genitori e altri ascendenti. «Bisogna evitare come la peste di acquistare cuccioli di cane o altri animali sui siti fatti per vendere oggetti di seconda mano», aggiunge Corsini. Poi può essere una buona idea consultare qualche veterinario per avere un parere su una razza e sugli allevamenti a cui affidarsi. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Nella raccolta delle foto di animali della settimana si fanno notare penne e pennuti: un fringuello sotto la neve, i colori di un’ara gialloblu, la coda di un pavone durante il rituale dell’accoppiamento, moltissimi piccioni e un po’ di gru dal collo nero. C’è spazio anche per la compagnia di qualche umano: chi dà un uovo a un orso, chi si prende un bacio da uno scimpanzé, chi osserva un varano d’acqua marmorizzato da dietro un vetro e chi uno stambecco che ha incontrato in un sentiero. LEGGI TUTTO

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    Perché si discute di bloccanti per la pubertà e transizione di genere nei più giovani

    Caricamento playerIl National Health Service (NHS) dell’Inghilterra, uno dei quattro sistemi sanitari pubblici del Regno Unito, ha avviato una profonda revisione dei trattamenti per la cosiddetta “disforia di genere” nei pre-adolescenti e negli adolescenti che non si sentono a proprio agio nel genere corrispondente al sesso biologico o che manifestano il desiderio di identificarsi in un genere diverso. Il ripensamento e la limitazione di alcuni interventi sono la conseguenza della pubblicazione di un atteso rapporto – basato sul lavoro di quattro anni e su un’ampia analisi della letteratura scientifica disponibile – dal quale sono emerse importanti lacune nelle conoscenze scientifiche sugli effetti di alcune terapie che vengono avviate per accompagnare e affrontare l’incongruenza di genere in un periodo estremamente delicato per lo sviluppo fisico e mentale.
    La pubblicazione della Revisione indipendente dei servizi di identità di genere per bambini e giovani, che informalmente viene chiamato “rapporto Cass” dal nome della sua autrice, la pediatra britannica Hilary Cass, ha suscitato grande interesse e qualche polemica nella comunità medica e tra chi si occupa di identità di genere, sia per i suoi effetti pratici nei servizi offerti dall’NHS alla popolazione sia per alcune conclusioni che contraddicono almeno in parte studi svolti in passato.
    La questione è del resto estremamente delicata e si può prestare a strumentalizzazioni, soprattutto a livello politico e decisionale, come riconosciuto dallo stesso rapporto che secondo Cass ha cercato il più possibile di mantenersi sugli aspetti prettamente scientifici. Per comprendere l’importanza del rapporto e le conseguenze che probabilmente avrà, non solo nel Regno Unito ma nei molti altri paesi in cui sono previsti trattamenti per la disforia di genere, è opportuno partire dalle basi.
    Pubertà e sviluppoLa pubertà (tra i 9 e i 14 anni circa) e il periodo che la precede sono fasi molto importanti per la crescita e lo sviluppo dell’organismo, sia in termini fisici sia mentali. In generale, le differenze evidenti tra bambini e bambine prima della pubertà sono limitate all’apparato genitale, per quanto ancora con poche funzionalità. Le cose cambiano con la maturazione sessuale e l’adolescenza, un periodo in cui intervengono importanti trasformazioni fisiche, neuronali e psichiche che portano il corpo di un bambino a diventare il corpo di una persona adulta in grado di riprodursi. Vari tipi di ormoni sono coinvolti in questo processo e portano allo sviluppo non solo di tratti più evidenti e distintivi, come peluria e modifica della voce, ma anche di alcune aree del cervello.
    È un periodo delicato che può accompagnarsi a fasi di incertezze, insicurezze e a un certo disagio nel constatare che il proprio corpo sta cambiando in modi magari inattesi e non in linea con le proprie aspettative e aspirazioni. Per la maggior parte delle persone è una fase transitoria, ma può accadere che a volte un bambino o una bambina manifestino un senso di insoddisfazione nei confronti dei loro genitali, dell’avvento delle mestruazioni, dell’abbassamento della voce o della crescita della barba.
    Quel senso di disagio può manifestarsi ancora prima della pubertà, negli anni in cui bambini e bambine iniziano a essere consapevoli del proprio sesso biologico, del genere corrispondente a quel sesso e delle aspettative di chi hanno intorno sul modo in cui lo esprimono. Bambini e bambine non hanno sempre gli strumenti per riflettere profondamente sul non sentirsi a proprio agio nel genere che viene loro attribuito, ma lo possono manifestare in vari modi: per esempio esprimendo il desiderio di indossare abiti socialmente associati al genere opposto, oppure di preferire colori o giochi diversi da quelli che ci si aspetterebbe. Con l’arrivo della pubertà, e quindi di una maggiore consapevolezza di sé, quel senso di disagio può scomparire, ma anche aumentare, e secondo pediatri e psicologi infantili è importante che venga affrontato.
    Disforia e incongruenzaLa disforia di genere è indicata nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), mentre nella Classificazione internazionale delle malattie dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) si usa la categoria diagnostica di “incongruenza di genere”, ritenuta una definizione più neutra. Negli ultimi anni tra chi si occupa professionalmente della salute delle persone trans è prevalsa comunque l’indicazione “varianza di genere”, più ampia e che aiuta a descrivere un approccio con maggiori complessità rispetto al modello medico tradizionale più orientato a considerare gli aspetti patologici.
    L’accompagnamento delle esperienze di varianza di genere durante l’infanzia e l’adolescenza si è orientato verso due approcci: il cosiddetto “watchful waiting”, cioè di attesa vigile, e il modello affermativo. Il primo consiste nell’osservare con attenzione l’identità di genere che viene dichiarata dalla giovane persona, riducendo le difficoltà e gli ostacoli che dall’esterno potrebbero turbare il naturale sviluppo della stessa identità di genere; il secondo prevede un intervento sul contesto sociale in cui vive la persona che manifesta una varianza di genere in modo che questa venga riconosciuta.
    In alcuni casi il percorso di transizione comprende anche l’impiego di particolari farmaci, la maggior parte a base di ormoni, che hanno la funzione di ritardare il periodo della pubertà o di orientare in modo diverso lo sviluppo sessuale. Si impiegano particolari farmaci (analoghi dell’ormone di rilascio delle gonadotropine, GnRH) che in altri contesti vengono usati per il trattamento della pubertà precoce centrale, cioè di quella condizione che porta a entrare nel periodo di pubertà prima degli 8 anni di età nelle bambine e dei 9 anni nei bambini.
    Le cause della pubertà precoce non sono completamente note e non sempre è necessario intervenire, per esempio se questa si manifesta non troppo prima della media. Nel caso in cui venga diagnosticata si procede con la somministrazione di farmaci come la Triptorelina che ritardano la progressione dello sviluppo, lasciando in questo modo all’organismo il tempo di proseguire con la crescita per esempio dell’apparato osseo che altrimenti rallenterebbe prima del dovuto. La terapia prosegue fino a quando la bambina o il bambino non raggiungono la normale età, con il processo della pubertà che ricomincia dai 6 ai 12 mesi dopo la sospensione della terapia (questo scarto viene tenuto in considerazione sul finire del trattamento).
    Primi trattamentiNelle persone con diagnosi di pubertà precoce, in linea di massima la terapia è ben tollerata e non ci sono particolari ripercussioni a distanza di anni dal trattamento. Partendo da queste considerazioni alcuni medici e gruppi di ricerca che si occupano dello sviluppo si erano chiesti se gli stessi trattamenti non potessero essere usati nei casi di disforia di genere tra i bambini, in modo da ritardare l’avvento della pubertà e dare loro qualche tempo in più per esplorare la propria identità prima di affrontare eventualmente il successivo percorso, che coinvolge l’impiego di altri tipi di ormoni per effettuare il percorso di transizione vero e proprio.
    Alcune delle prime esperienze in questo senso furono svolte nei Paesi Bassi negli anni Novanta, con la somministrazione di farmaci per il trattamento della pubertà precoce in adolescenti e pre-adolescenti che avevano manifestato il desiderio persistente di identificarsi in un genere diverso. La pratica, basata sull’esperienza con 70 adolescenti, fu raccontata in una ricerca scientifica pubblicata nel 2011. Lo studio segnalava come i farmaci bloccanti della pubertà avessero portato, insieme alla terapia psicologica, a importanti benefici per i partecipanti riducendo alcuni dei sintomi più ricorrenti a cominciare dal forte senso di depressione, ansia, scarsa stima di sé e un maggiore rischio di suicidio nell’età adulta.
    L’esperienza clinica dei Paesi Bassi divenne negli anni un importante punto di riferimento nei paesi dove iniziavano a essere organizzate strutture dedicate alla disforia di genere. La maggiore conoscenza della questione tra pediatri e medici contribuì a fare aumentare le segnalazioni e l’invio di pazienti verso i centri specializzati. L’aumento dei casi gestiti fu significativo in alcuni paesi, per quanto con numeri relativamente contenuti rispetto alla popolazione dei minori di 14 anni. In Svezia si passò da 50 casi nel 2014 a oltre 350 nel 2022, mentre in Inghilterra l’aumento fu lievemente più marcato con un passaggio da 470 a 3.600 nello stesso periodo di tempo.
    DubbiCon questi incrementi ci fu anche un aumento della varietà dei casi, spesso sensibilmente diversi rispetto a quelli raccontati nello studio del 2011 nei Paesi Bassi. Molte delle nuove persone coinvolte non avevano per esempio mostrato forme di disagio legate al genere fino al periodo della pubertà e c’erano più casi di particolari condizioni come forme di depressione e di autismo. Alcuni medici iniziarono a mettere in dubbio le pratiche seguite in alcuni ospedali o cliniche, visto che alcuni dei presupposti derivavano soprattutto da quello studio ritenuto datato e non sempre rappresentativo.
    I dubbi sollevati dagli esperti, alcuni coinvolti direttamente nelle cliniche specializzate, portarono tra il 2020 e il 2022 alcuni paesi come Finlandia e Svezia a rivedere alcune delle pratiche legate soprattutto ad alcune tipologie di trattamenti ormonali. Nel 2023 un documentario della televisione pubblica dei Paesi Bassi portò nuovi elementi di confronto e dibattito, che all’inizio di quest’anno sono sfociati nella richiesta da parte del parlamento di avviare una ricerca per mettere a confronto i metodi utilizzati nei Paesi Bassi con quelli di altri paesi europei. La decisione ha suscitato polemiche ed è arrivata pochi mesi dopo la vittoria dell’estrema destra alle elezioni politiche del paese.
    La decisione di avviare un’indagine medico-scientifica nel Regno Unito era nata sulla scia dei medesimi dubbi, espressi da alcuni medici della Gender Identity Development Service di Tavistock, l’unica clinica dell’Inghilterra dedicata alle esperienze di varianza di genere durante l’infanzia e l’adolescenza. Nel 2018 una decina di medici presentò una segnalazione formale, dicendo di lavorare in un contesto che nei fatti portava ad approvare velocemente i trattamenti con i bloccanti per la pubertà anche nel caso di persone con problemi mentali più gravi. La loro preoccupazione è condivisa da chi lavora in cliniche di questo tipo con capacità insufficiente per accogliere le richieste, con la conseguenza di un forte carico di lavoro e di lunghe liste di attesa non compatibili con i tempi della fase dello sviluppo. La possibilità che la delicata fase della diagnosi possa essere affrettata è anche uno dei fattori che può portare una famiglia di bambini e adolescenti trans a preoccuparsi che la disforia di genere possa essere sovrastimata nel caso che la riguarda.
    Alla segnalazione si era aggiunta nel 2021 una ricerca svolta nella clinica inglese e che aveva coinvolto 44 bambini ai quali erano stati prescritti farmaci bloccanti per la pubertà. Lo studio aveva portato a risultati diversi dalla ricerca del 2011, non facendo emergere esiti rilevanti sulle funzioni psicologiche delle persone interessate. Inoltre, 43 partecipanti su 44 decisero in seguito di avviare i trattamenti con ormoni (testosterone o estrogeni), facendo sollevare qualche dubbio sull’effettiva utilità nel ritardare il periodo della pubertà per valutare se procedere o meno con la transizione.
    Sia la ricerca del 2011 sia quella del 2021 presentavano comunque alcuni limiti, come del resto spesso avviene negli studi che riguardano lo stato mentale delle persone. È infatti molto difficile creare condizioni sperimentali che permettano di capire se un dato esito sia dipeso o meno da una terapia, soprattutto in un contesto in veloce evoluzione come nel caso di persone nella loro fase di sviluppo tra inizio della pubertà e adolescenza.
    Il rapporto CassNel 2020 sempre in Inghilterra era stata intanto incaricata Hilary Cass di effettuare una analisi indipendente delle pratiche e degli studi scientifici pubblicati negli anni sull’argomento. Cass è una medica molto rispettata e ha avuto numerosi incarichi di rilievo nella sanità pubblica britannica e nel panorama accademico. Tra il 2012 e il 2015 è stata presidente del Royal College of Paediatrics and Child Health, il più importante organismo professionale dei pediatri nel Regno Unito e in precedenza era stata responsabile di alcuni ospedali pediatrici e della Scuola di pediatria di Londra. Nel 2015 per le proprie attività in ambito pediatrico ha ricevuto una delle più alte onorificenze del Regno Unito (OBE, Officer of the Order of the British Empire).
    Come avrebbe raccontato in seguito, Cass pensò che il lavoro potesse essere svolto in qualche mese: invece avrebbe richiesto quasi quattro anni per essere completato, sia per la complessità dell’argomento sia per la necessità di valutare nel modo più accurato possibile la letteratura scientifica.
    Poco dopo avere ricevuto l’incarico, Cass chiese all’Università di York di effettuare una serie di analisi degli studi esistenti, non solo per confrontare i loro risultati, ma anche per capire metodologie e approcci seguiti per svolgerli. Quel lavoro che ha coinvolto decine di ricercatrici e ricercatori ha portato alla produzione di alcune ricerche scientifiche che sono state comprese nel rapporto e che coinvolgono diversi aspetti della questione: sono per lo più revisioni analisi degli studi già prodotti su un determinato argomento nel tempo, sottoposte poi a processi di revisione da parte di altri esperti indipendenti (“peer review“).
    Linee guidaDue ricerche sono dedicate alla qualità e al modo in cui sono messe in pratica le linee guida e le raccomandazioni per gestire la disforia di genere nei giovani fino a 18 anni di età. Il lavoro si è concentrato su 23 linee guida pubblicate in vari paesi tra la fine degli anni Novanta e il 2022 ed è emerso che la maggior parte non offre un approccio «indipendente e basato sulle prove scientifiche» e informazioni adeguate sul modo in cui sono state realizzate. Le due ricerche hanno anche segnalato la mancanza di trasparenza sul modo in cui sono state sviluppate alcune raccomandazioni e l’assenza di revisioni sistematiche (in sostanza analisi di analisi) delle prove empiriche utilizzate.
    Per l’Italia è stato preso in considerazione uno studio svolto nel 2014 che aveva coinvolto diversi esperti del settore in quello che era stato definito dagli stessi autori: «Un approfondito brainstorming sull’applicazione delle linee guida internazionali nel contesto italiano». I centri di riferimento in Italia sono ancora relativamente pochi, uno dei più conosciuti è presso l’ospedale Careggi di Firenze, di recente sottoposto ad accertamenti da parte del ministero della Salute. Le analisi svolte all’Università di York avevano lo scopo di fare una valutazione generale sulle linee guida, di conseguenza non ci sono riferimenti o confronti specifici tra diversi paesi.
    Entrambe le ricerche hanno comunque messo in evidenza la mancanza di dati attendibili e la necessità di riempire molte lacune, in modo da offrire un servizio migliore a persone che si trovano in una fase critica del loro sviluppo. Partendo da questi risultati, nell’introduzione al proprio rapporto Cass ha scritto che solitamente in ambito medico si è molto cauti nell’adottare nuove scoperte ma che «nel campo dell’assistenza di genere per i bambini è avvenuto il contrario».
    BloccantiPer quanto riguarda i bloccanti per la pubertà, un altro studio effettuato sempre per il rapporto dall’Università di York ha preso in considerazione 50 ricerche sugli effetti di questo tipo di farmaci nei bambini e nelle bambine con disforia di genere. Il gruppo di ricerca ha concluso che un solo studio conteneva dati affidabili e di alta qualità, mentre 25 ne contenevano di «qualità moderata». I restanti 24 studi sono stati invece scartati dopo una prima analisi, perché ritenuti inconsistenti.
    Lo studio ha segnalato che in molti casi le ricerche si erano concentrate sull’efficacia dei trattamenti per fermare la pubertà e sugli effetti collaterali, senza però valutare se i farmaci avessero portato ai benefici attesi in termini di benessere e serenità delle persone coinvolte. Il gruppo di ricerca di York ha trovato indizi «molto limitati» sul fatto che i bloccanti per la pubertà migliorino le condizioni mentali e nel complesso ha scritto che non si possono trarre conclusioni sul loro impatto sulla disforia di genere. Per quanto riguarda gli eventuali effetti dopo i trattamenti, il gruppo di ricerca ha segnalato la presenza di qualche indizio sul peggioramento della salute dell’apparato osseo, in una fase in cui termina il proprio sviluppo.
    OrmoniUna quarta ricerca svolta sempre all’Università di York si è invece occupata dei trattamenti a base di ormoni, molto importanti per la transizione di genere e utilizzati dagli adulti transgender da molto tempo (la loro assunzione può portare a problemi di salute, ma i benefici per chi vive un disagio legato al genere atteso superano abbondantemente i rischi). Negli ultimi anni è diventata più frequente l’assunzione – sotto controllo medico – degli ormoni anche da parte degli adolescenti, dopo che hanno terminato l’assunzione dei farmaci per bloccare la pubertà. È uno degli aspetti più discussi e ha subìto spesso strumentalizzazioni di tipo politico, specialmente (ma non unicamente) dagli ambienti conservatori, e ha portato a limitazioni negli accessi alle terapie in alcuni paesi.
    In questo caso la ricerca ha riguardato l’analisi di 53 studi per verificare quale sia a oggi lo stato delle conoscenze su benefici, rischi ed eventuali effetti indesiderati dei trattamenti ormonali nelle persone di giovane età. A parte uno studio che effettivamente indagava gli effetti indesiderati, tutti gli altri sono stati valutati di qualità bassa o moderata a seconda dei casi, rendendo quindi impossibili conclusioni affidabili su questo tipo di trattamenti per lo meno sugli effetti per l’organismo.
    L’analisi ha trovato qualche indizio sul fatto che questi trattamenti possano comunque portare qualche beneficio dal punto di vista della salute mentale nelle persone trans di giovane età. Cinque studi tra quelli esaminati hanno indicato un miglioramento negli adolescenti con depressione, ansia e altre condizioni a un anno di distanza dall’inizio dei trattamenti. È però difficile stabilire quale sia stato di preciso il ruolo degli ormoni e se non si potessero ottenere i medesimi risultati in altro modo.
    Conclusioni e controversieIl rapporto Cass raccomanda che sia avviato uno studio più ampio sui bloccanti per la pubertà (in Inghilterra dovrebbe essere avviato entro fine anno), che siano svolte ricerche più approfondite sugli aspetti psicologici e legati alle linee guida impiegate e una maggiore raccolta di dati sui trattamenti a base di ormoni.
    La diffusione del rapporto, che era stata anticipata da alcune versioni provvisorie e dai risultati degli studi, è stata accolta con interesse ed è vista come la possibilità di ampliare il confronto su un tema già fortemente dibattuto e spesso polarizzante. Cass ha detto di essere consapevole che le conclusioni del suo lavoro avranno effetti diretti su alcune persone, per le quali ci saranno maggiori limitazioni, ma ritiene che questi effetti siano la dimostrazione della necessità di arrivare a qualcosa di meglio per loro: «Le abbiamo deluse perché le ricerche non sono valide a sufficienza e perché abbiamo pochi dati. La tossicità del dibattito è dovuta agli adulti, e questo non è corretto nei confronti dei bambini e delle bambine coinvolti».
    La scarsa disponibilità di ricerche di alta qualità dipende da numerosi fattori, anche molto diversi tra loro a seconda dei paesi e delle circostanze in cui vengono svolte. La quantità di casi relativamente contenuta, per esempio, rende più difficile avere dati a sufficienza per fare valutazioni ampie e arrivare a conclusioni affidabili. Le risorse finanziarie destinate a questo tipo di esperienze sono talvolta insufficienti, con poco personale medico che può occuparsene e che abbia poi anche il tempo e le opportunità per produrre studi e rapporti sulle pratiche seguite. È un problema comune a diversi ambiti dell’assistenza medica, in particolare in settori che per lungo tempo sono stati messi in secondo piano come quelli della salute mentale per il benessere complessivo di ogni persona.
    Il personale sanitario si muove in questo contesto non sempre ideale per prendere decisioni che avranno importanti conseguenze sulla vita dei loro pazienti. Decidere e avviare un trattamento, al meglio delle conoscenze acquisite in ambito scientifico (per quanto parziali), in alcuni casi è sentito come una necessità sia per la veloce evoluzione del fisico nella fase di sviluppo che richiede di intervenire in tempi rapidi, sia per ridurre il rischio di depressione e suicidi in età più matura.
    Si discuterà ancora a lungo del rapporto Cass soprattutto perché a oggi comprende alcuni degli studi scientifici più completi nella revisione delle ricerche prodotte in questi anni sui trattamenti per gestire la disforia di genere. Alcuni gruppi e associazioni che lavorano sulle questioni di genere hanno segnalato il rischio che il rapporto possa essere strumentalizzato, portando alla perdita di alcuni dei progressi raggiunti in questi anni per accompagnare e assistere i minorenni con varianza di genere. LEGGI TUTTO

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    È morto il fisico Peter Higgs

    È morto a 94 anni il fisico inglese Peter Higgs, noto per aver ipotizzato esplicitamente la presenza di una particella mai osservata prima, il cosiddetto bosone di Higgs. Nato a Newcastle upon Tyne, nel Regno Unito, nel 1929, era professore emerito di fisica teorica all’Università di Edimburgo, che ha dato notizia della sua morte, avvenuta l’8 aprile dopo una breve malattia. Per i suoi studi sulle particelle subatomiche nel 2013 Higgs ottenne il premio Nobel per la Fisica assieme al belga François Englert.Per descrivere l’esistenza e il comportamento delle particelle, nel corso degli anni i fisici hanno elaborato il “modello standard”. Questo comprende tre delle quattro forze fondamentali note (interazione forte, elettromagnetica e debole) e le particelle elementari relative. Il modello non dà però la risposta, al momento, a una domanda fondamentale: perché buona parte delle particelle elementari sono dotate di una massa? Se non ce l’avessero, tutte le cose che ci circondano sarebbero estremamente diverse da come le conosciamo.
    Se, per esempio, gli elettroni fossero privi di massa, gli atomi non esisterebbero per come sono ora noti. La materia non avrebbe le attuali forme e non ci sarebbero le scienze che studiamo oggi, gli animali, gli esseri umani e tutto il resto. Non ci sarebbero probabilmente nemmeno le stelle per come le conosciamo: brillano grazie alle interazioni tra le forze fondamentali della natura, che sarebbero molto molto diverse se le particelle non avessero massa.
    Il problema è che il concetto di massa non si adatta molto al modello standard, le cui equazioni di base sembrano richiedere che tutte le particelle ne siano prive.
    A partire dai primi anni Sessanta, Higgs, Englert e altri fisici proposero un sistema per integrare le equazioni del modello standard, rendendole compatibili con il fatto che molte particelle elementari hanno una massa. Questa integrazione viene chiamata “meccanismo di Higgs” e ha consentito ai ricercatori di approfondire le loro conoscenze sulla materia, formulando diverse previsioni anche sulla massa della particella più pesante fino a ora conosciuta, il top quark. Empiricamente, grazie a una serie di esperimenti, i fisici hanno poi trovato questa particella proprio nella posizione che era stata prevista teoricamente con il meccanismo di Higgs.
    Già negli anni Sessanta Higgs ipotizzò esplicitamente la presenza di una particella mai osservata prima per far funzionare il meccanismo che porta il suo nome. Questa particella ipotetica, che ha continuato a essere studiata, è appunto il bosone di Higgs, e si ipotizza che conferisca la massa alle altre particelle interagendo con loro. La ricerca sul tema è in corso da anni al CERN di Ginevra, principalmente grazie al Large Hadron Collider (LHC), un enorme acceleratore di particelle, e tra il 2012 e il 2013 ha portato a risultati sperimentali consistenti.

    – Leggi anche: Perché acceleriamo le particelle LEGGI TUTTO