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    Dovremmo cambiare i cani col muso schiacciato, per il loro bene

    Qualche settimana fa in Germania c’è stata una piccola polemica riguardo a una proposta di legge che, secondo alcuni articoli sensazionalistici, avrebbe vietato l’allevamento dei bassotti. In realtà il disegno di legge, promosso dai Verdi tedeschi – uno dei partiti di governo – non prevede nulla di così prescrittivo: semplicemente se fosse approvato proibirebbe di far riprodurre cani con caratteristiche fisiche che causano sofferenza agli animali, problemi di salute e una bassa aspettativa di vita. Nessuna specifica razza canina verrebbe vietata, si cercherebbe solo di evitare la diffusione di certi tratti estremi, come zampe eccessivamente corte o musi eccezionalmente schiacciati.Negli ultimi anni i problemi di salute particolarmente sofferti dai cani di certe razze sono stati una questione abbastanza discussa in diversi paesi, europei e no, anche con orientamenti ben più rigidi di quello tedesco. Nei Paesi Bassi ad esempio è in discussione da più di un anno una proposta di legge per vietare veramente il possesso di certi tipi di cani (non dei bassotti), oltre alla diffusione delle loro immagini nelle pubblicità e sui social network. È invece più permissiva la proposta di regolamento della Commissione Europea a proposito del benessere di cani e gatti presentata lo scorso dicembre, che dice solo che gli allevatori devono provvedere a evitare che «le strategie di riproduzione» causino la trasmissione di caratteristiche «nocive».
    In particolare la proposta di regolamento europeo «non osta alla selezione e alla riproduzione di cani e gatti brachicefali», cioè con il cranio schiacciato, come carlini, bouledogue francesi e Cavalier King Charles spaniel. Sono tra le razze di cani che secondo i veterinari hanno più problemi sanitari gravi dovuti alla loro conformazione fisica. Nella sua versione attuale la proposta di regolamento impone solo che i «programmi di selezione o riproduzione riducano al minimo le conseguenze negative che i tratti brachicefali hanno sul benessere».
    Un Cavalier King Charles spaniel durante una competizione di una mostra canina a New York, l’8 maggio 2023 (AP Photo/John Minchillo)
    Nel mondo esistono più di 300 diverse razze di cani. Appartengono tutte alla stessa specie, ma possono avere tratti fisici diversissimi che sono stati selezionati artificialmente nei secoli dalle persone, facendo accoppiare cani simili tra loro. «L’obiettivo della selezione era specializzare i cani in base a determinate caratteristiche: ci sono cani da difesa, cani da caccia, cani da compagnia e via dicendo», spiega Marco Melosi, presidente dell’Associazione nazionale medici veterinari italiani (ANMVI), «ma non si è mai fatta tanta attenzione a quelle che erano le conseguenze negative della selezione».
    Nel caso delle razze brachicefaliche è stata selezionata una forma del muso che si ritiene piaccia a molte persone perché ricorda le facce dei bambini. Il primo a ipotizzarlo fu l’etologo e psicologo austriaco Konrad Lorenz, premio Nobel per la medicina nel 1973, noto soprattutto per i suoi studi sul comportamento di cani e uccelli. Nel 1943 Lorenz teorizzò che l’aspetto che ricorda quello dei bambini piccoli, il cosiddetto Kindchenschema, porta gli esseri umani a provare affetto per gli animali non umani che lo mostrano, oltre all’impulso di prendersene cura.
    Quale che sia la ragione per cui piacciono molto a tante persone, carlini e bouledogue francesi sono razze molto popolari in questi anni, tanto che le proposte legislative pensate per i loro problemi di salute a volte prevedono divieti di diffonderne le immagini sui social network. Sono anche molti gli influencer che hanno cani di queste razze – in Italia era piuttosto conosciuta la bouledogue francese di Chiara Ferragni, morta nell’estate del 2023 per un tumore.
    Una bouledogue francese a Londra, il 18 novembre 2023 (AP Photo/Kirsty Wigglesworth)
    I problemi legati alla brachicefalia non sono gli unici legati alla selezione delle razze, ma sono particolarmente dannosi e senza interventi chirurgici possono causare la morte prematura degli individui in cui sono più gravi. Il fatto di avere il cranio più largo che lungo fa sì che in questi cani i tessuti molli dell’apparato respiratorio, cioè quelli di naso, laringe e trachea, siano compressi e ostruiscano parzialmente le vie aeree. Per questo sono anche detti cani che vivono “con un filo d’aria”. Il loro disagio legato alla respirazione si aggrava quando le temperature sono più alte perché i cani disperdono il calore corporeo ansimando: i brachicefali possono espirare poca aria alla volta e per questo patiscono molto il caldo.
    Molto spesso poi succede che sviluppino una polmonite legata al vomito, la cosiddetta polmonite ab ingestis. Ogni volta che rimettono, questi cani rischiano che un po’ di vomito finisca nella trachea, che è compressa vicino all’esofago, e da lì nei bronchi, dove può causare un’infezione.
    Giulia Corsini, veterinaria specializzata in emergenze che lavora in un ospedale vicino a Cambridge, nel Regno Unito, dice che ogni settimana si trova ad avere a che fare con cani brachicefali che hanno problemi respiratori acuti e a cui deve essere fornito più ossigeno. Corsini ha descritto un caso tipo di polmonite ab ingestis in un libro pubblicato da poco, Salvare gli animali (Utet), e dice che «tra i cani che più di frequente arrivano nei reparti di emergenza ci sono carlini e Bulldog con problemi respiratori».
    I veterinari possono sottoporre questi cani a interventi chirurgici correttivi al naso o al palato che li aiutino a respirare meglio, ma non è una cosa da poco né per i cani, né per i loro proprietari. Anche dal punto di vista economico: tra esami del sangue, radiografie, TAC e operazioni si possono spendere diverse migliaia di euro. A queste vanno aggiunte spesso altre spese per altri problemi legati alla brachicefalia come il sovrappeso causato dal fatto che faticando a respirare i cani non fanno molto moto. Possono poi esserci problemi secondari gastrointestinali dovuti all’aumento della pressione intratoracica come ernia iatale, e problemi legati agli occhi sporgenti, come le ulcere corneali. Anche avere uno spazio insufficiente per i denti può portare disagi.
    «Nel Regno Unito i veterinari portano avanti una campagna educativa martellante sui rischi legati a queste razze», racconta Corsini, «si potrebbe dire che dal punto di vista economico vada contro il nostro interesse, visto che tutti i problemi di questi cani comportano grandi spese, ma, appunto perché ci importa molto del benessere dell’animale, suggeriamo di pensare ad altre razze o quantomeno di scegliere gli individui con una conformazioni anatomica più normale».
    In Italia è stata fatta una proposta di legge pensata per vietare alcune pratiche relative alla selezione di certe caratteristiche fisiche dei cani, ma attualmente non esistono misure in vigore che impongano qualcosa di specifico agli allevatori.
    Un carlino a Berlino, il 3 agosto 2013 (AP Photo/Gero Breloer)
    Melosi spiega che si sta provando a risolvere i problemi di salute dei cani brachicefali con un altro approccio, meno radicale. Dal 2019 l’ANMVI sta portando avanti un progetto insieme all’Ente nazionale cinofilia italiana (ENCI), l’organizzazione che cataloga e fissa gli standard per le razze canine e gestisce le competizioni cinofile in Italia, per migliorare la salute di questi cani riducendo il numero di quelli che hanno le caratteristiche fisiche più estreme.
    Da parte loro i veterinari hanno condotto un’indagine nazionale per stimare quale sia la frequenza di difficoltà respiratorie nei cani brachicefali italiani e classificare i diversi problemi in base alla gravità. Nel frattempo hanno adottato una campagna di comunicazione con volantini appesi negli studi e nelle cliniche veterinarie per informare sui problemi di salute frequenti nelle razze brachicefaliche.
    Invece la commissione tecnica dell’ENCI sta lavorando per spingere gli allevatori a sottoporre i cani a due test studiati nel Regno Unito e in Francia per individuare i cani che possono sviluppare la sindrome ostruttiva delle vie aeree superiori (spesso chiamata BOAS dall’acronimo in inglese). È da circa sei mesi che si stanno portando avanti questi test, pensati per capire quali siano i cani più sani e sceglierli per la riproduzione, dunque per portare avanti le nuove generazioni delle razze in questione.
    In passato era stato fatto qualcosa di simile per un altro problema di salute diffuso in varie razze di cani, cioè la displasia dell’anca, che riguarda ad esempio i pastori tedeschi e i golden retriever: negli ultimi quarant’anni i cani con questo problema sono via via diminuiti grazie alle verifiche fatte dagli allevatori prima di farli riprodurre. Ci vorrà del tempo però perché si vedano degli effetti su larga scala, più di qualche generazione molto probabilmente.
    Sia Corsini che Melosi consigliano a chi proprio volesse avere un cane di una razza brachicefala di acquistarne uno col pedigree, cioè di cui si abbiano informazioni su genitori e altri ascendenti. «Bisogna evitare come la peste di acquistare cuccioli di cane o altri animali sui siti fatti per vendere oggetti di seconda mano», aggiunge Corsini. Poi può essere una buona idea consultare qualche veterinario per avere un parere su una razza e sugli allevamenti a cui affidarsi. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Nella raccolta delle foto di animali della settimana si fanno notare penne e pennuti: un fringuello sotto la neve, i colori di un’ara gialloblu, la coda di un pavone durante il rituale dell’accoppiamento, moltissimi piccioni e un po’ di gru dal collo nero. C’è spazio anche per la compagnia di qualche umano: chi dà un uovo a un orso, chi si prende un bacio da uno scimpanzé, chi osserva un varano d’acqua marmorizzato da dietro un vetro e chi uno stambecco che ha incontrato in un sentiero. LEGGI TUTTO

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    Perché si discute di bloccanti per la pubertà e transizione di genere nei più giovani

    Caricamento playerIl National Health Service (NHS) dell’Inghilterra, uno dei quattro sistemi sanitari pubblici del Regno Unito, ha avviato una profonda revisione dei trattamenti per la cosiddetta “disforia di genere” nei pre-adolescenti e negli adolescenti che non si sentono a proprio agio nel genere corrispondente al sesso biologico o che manifestano il desiderio di identificarsi in un genere diverso. Il ripensamento e la limitazione di alcuni interventi sono la conseguenza della pubblicazione di un atteso rapporto – basato sul lavoro di quattro anni e su un’ampia analisi della letteratura scientifica disponibile – dal quale sono emerse importanti lacune nelle conoscenze scientifiche sugli effetti di alcune terapie che vengono avviate per accompagnare e affrontare l’incongruenza di genere in un periodo estremamente delicato per lo sviluppo fisico e mentale.
    La pubblicazione della Revisione indipendente dei servizi di identità di genere per bambini e giovani, che informalmente viene chiamato “rapporto Cass” dal nome della sua autrice, la pediatra britannica Hilary Cass, ha suscitato grande interesse e qualche polemica nella comunità medica e tra chi si occupa di identità di genere, sia per i suoi effetti pratici nei servizi offerti dall’NHS alla popolazione sia per alcune conclusioni che contraddicono almeno in parte studi svolti in passato.
    La questione è del resto estremamente delicata e si può prestare a strumentalizzazioni, soprattutto a livello politico e decisionale, come riconosciuto dallo stesso rapporto che secondo Cass ha cercato il più possibile di mantenersi sugli aspetti prettamente scientifici. Per comprendere l’importanza del rapporto e le conseguenze che probabilmente avrà, non solo nel Regno Unito ma nei molti altri paesi in cui sono previsti trattamenti per la disforia di genere, è opportuno partire dalle basi.
    Pubertà e sviluppoLa pubertà (tra i 9 e i 14 anni circa) e il periodo che la precede sono fasi molto importanti per la crescita e lo sviluppo dell’organismo, sia in termini fisici sia mentali. In generale, le differenze evidenti tra bambini e bambine prima della pubertà sono limitate all’apparato genitale, per quanto ancora con poche funzionalità. Le cose cambiano con la maturazione sessuale e l’adolescenza, un periodo in cui intervengono importanti trasformazioni fisiche, neuronali e psichiche che portano il corpo di un bambino a diventare il corpo di una persona adulta in grado di riprodursi. Vari tipi di ormoni sono coinvolti in questo processo e portano allo sviluppo non solo di tratti più evidenti e distintivi, come peluria e modifica della voce, ma anche di alcune aree del cervello.
    È un periodo delicato che può accompagnarsi a fasi di incertezze, insicurezze e a un certo disagio nel constatare che il proprio corpo sta cambiando in modi magari inattesi e non in linea con le proprie aspettative e aspirazioni. Per la maggior parte delle persone è una fase transitoria, ma può accadere che a volte un bambino o una bambina manifestino un senso di insoddisfazione nei confronti dei loro genitali, dell’avvento delle mestruazioni, dell’abbassamento della voce o della crescita della barba.
    Quel senso di disagio può manifestarsi ancora prima della pubertà, negli anni in cui bambini e bambine iniziano a essere consapevoli del proprio sesso biologico, del genere corrispondente a quel sesso e delle aspettative di chi hanno intorno sul modo in cui lo esprimono. Bambini e bambine non hanno sempre gli strumenti per riflettere profondamente sul non sentirsi a proprio agio nel genere che viene loro attribuito, ma lo possono manifestare in vari modi: per esempio esprimendo il desiderio di indossare abiti socialmente associati al genere opposto, oppure di preferire colori o giochi diversi da quelli che ci si aspetterebbe. Con l’arrivo della pubertà, e quindi di una maggiore consapevolezza di sé, quel senso di disagio può scomparire, ma anche aumentare, e secondo pediatri e psicologi infantili è importante che venga affrontato.
    Disforia e incongruenzaLa disforia di genere è indicata nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), mentre nella Classificazione internazionale delle malattie dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) si usa la categoria diagnostica di “incongruenza di genere”, ritenuta una definizione più neutra. Negli ultimi anni tra chi si occupa professionalmente della salute delle persone trans è prevalsa comunque l’indicazione “varianza di genere”, più ampia e che aiuta a descrivere un approccio con maggiori complessità rispetto al modello medico tradizionale più orientato a considerare gli aspetti patologici.
    L’accompagnamento delle esperienze di varianza di genere durante l’infanzia e l’adolescenza si è orientato verso due approcci: il cosiddetto “watchful waiting”, cioè di attesa vigile, e il modello affermativo. Il primo consiste nell’osservare con attenzione l’identità di genere che viene dichiarata dalla giovane persona, riducendo le difficoltà e gli ostacoli che dall’esterno potrebbero turbare il naturale sviluppo della stessa identità di genere; il secondo prevede un intervento sul contesto sociale in cui vive la persona che manifesta una varianza di genere in modo che questa venga riconosciuta.
    In alcuni casi il percorso di transizione comprende anche l’impiego di particolari farmaci, la maggior parte a base di ormoni, che hanno la funzione di ritardare il periodo della pubertà o di orientare in modo diverso lo sviluppo sessuale. Si impiegano particolari farmaci (analoghi dell’ormone di rilascio delle gonadotropine, GnRH) che in altri contesti vengono usati per il trattamento della pubertà precoce centrale, cioè di quella condizione che porta a entrare nel periodo di pubertà prima degli 8 anni di età nelle bambine e dei 9 anni nei bambini.
    Le cause della pubertà precoce non sono completamente note e non sempre è necessario intervenire, per esempio se questa si manifesta non troppo prima della media. Nel caso in cui venga diagnosticata si procede con la somministrazione di farmaci come la Triptorelina che ritardano la progressione dello sviluppo, lasciando in questo modo all’organismo il tempo di proseguire con la crescita per esempio dell’apparato osseo che altrimenti rallenterebbe prima del dovuto. La terapia prosegue fino a quando la bambina o il bambino non raggiungono la normale età, con il processo della pubertà che ricomincia dai 6 ai 12 mesi dopo la sospensione della terapia (questo scarto viene tenuto in considerazione sul finire del trattamento).
    Primi trattamentiNelle persone con diagnosi di pubertà precoce, in linea di massima la terapia è ben tollerata e non ci sono particolari ripercussioni a distanza di anni dal trattamento. Partendo da queste considerazioni alcuni medici e gruppi di ricerca che si occupano dello sviluppo si erano chiesti se gli stessi trattamenti non potessero essere usati nei casi di disforia di genere tra i bambini, in modo da ritardare l’avvento della pubertà e dare loro qualche tempo in più per esplorare la propria identità prima di affrontare eventualmente il successivo percorso, che coinvolge l’impiego di altri tipi di ormoni per effettuare il percorso di transizione vero e proprio.
    Alcune delle prime esperienze in questo senso furono svolte nei Paesi Bassi negli anni Novanta, con la somministrazione di farmaci per il trattamento della pubertà precoce in adolescenti e pre-adolescenti che avevano manifestato il desiderio persistente di identificarsi in un genere diverso. La pratica, basata sull’esperienza con 70 adolescenti, fu raccontata in una ricerca scientifica pubblicata nel 2011. Lo studio segnalava come i farmaci bloccanti della pubertà avessero portato, insieme alla terapia psicologica, a importanti benefici per i partecipanti riducendo alcuni dei sintomi più ricorrenti a cominciare dal forte senso di depressione, ansia, scarsa stima di sé e un maggiore rischio di suicidio nell’età adulta.
    L’esperienza clinica dei Paesi Bassi divenne negli anni un importante punto di riferimento nei paesi dove iniziavano a essere organizzate strutture dedicate alla disforia di genere. La maggiore conoscenza della questione tra pediatri e medici contribuì a fare aumentare le segnalazioni e l’invio di pazienti verso i centri specializzati. L’aumento dei casi gestiti fu significativo in alcuni paesi, per quanto con numeri relativamente contenuti rispetto alla popolazione dei minori di 14 anni. In Svezia si passò da 50 casi nel 2014 a oltre 350 nel 2022, mentre in Inghilterra l’aumento fu lievemente più marcato con un passaggio da 470 a 3.600 nello stesso periodo di tempo.
    DubbiCon questi incrementi ci fu anche un aumento della varietà dei casi, spesso sensibilmente diversi rispetto a quelli raccontati nello studio del 2011 nei Paesi Bassi. Molte delle nuove persone coinvolte non avevano per esempio mostrato forme di disagio legate al genere fino al periodo della pubertà e c’erano più casi di particolari condizioni come forme di depressione e di autismo. Alcuni medici iniziarono a mettere in dubbio le pratiche seguite in alcuni ospedali o cliniche, visto che alcuni dei presupposti derivavano soprattutto da quello studio ritenuto datato e non sempre rappresentativo.
    I dubbi sollevati dagli esperti, alcuni coinvolti direttamente nelle cliniche specializzate, portarono tra il 2020 e il 2022 alcuni paesi come Finlandia e Svezia a rivedere alcune delle pratiche legate soprattutto ad alcune tipologie di trattamenti ormonali. Nel 2023 un documentario della televisione pubblica dei Paesi Bassi portò nuovi elementi di confronto e dibattito, che all’inizio di quest’anno sono sfociati nella richiesta da parte del parlamento di avviare una ricerca per mettere a confronto i metodi utilizzati nei Paesi Bassi con quelli di altri paesi europei. La decisione ha suscitato polemiche ed è arrivata pochi mesi dopo la vittoria dell’estrema destra alle elezioni politiche del paese.
    La decisione di avviare un’indagine medico-scientifica nel Regno Unito era nata sulla scia dei medesimi dubbi, espressi da alcuni medici della Gender Identity Development Service di Tavistock, l’unica clinica dell’Inghilterra dedicata alle esperienze di varianza di genere durante l’infanzia e l’adolescenza. Nel 2018 una decina di medici presentò una segnalazione formale, dicendo di lavorare in un contesto che nei fatti portava ad approvare velocemente i trattamenti con i bloccanti per la pubertà anche nel caso di persone con problemi mentali più gravi. La loro preoccupazione è condivisa da chi lavora in cliniche di questo tipo con capacità insufficiente per accogliere le richieste, con la conseguenza di un forte carico di lavoro e di lunghe liste di attesa non compatibili con i tempi della fase dello sviluppo. La possibilità che la delicata fase della diagnosi possa essere affrettata è anche uno dei fattori che può portare una famiglia di bambini e adolescenti trans a preoccuparsi che la disforia di genere possa essere sovrastimata nel caso che la riguarda.
    Alla segnalazione si era aggiunta nel 2021 una ricerca svolta nella clinica inglese e che aveva coinvolto 44 bambini ai quali erano stati prescritti farmaci bloccanti per la pubertà. Lo studio aveva portato a risultati diversi dalla ricerca del 2011, non facendo emergere esiti rilevanti sulle funzioni psicologiche delle persone interessate. Inoltre, 43 partecipanti su 44 decisero in seguito di avviare i trattamenti con ormoni (testosterone o estrogeni), facendo sollevare qualche dubbio sull’effettiva utilità nel ritardare il periodo della pubertà per valutare se procedere o meno con la transizione.
    Sia la ricerca del 2011 sia quella del 2021 presentavano comunque alcuni limiti, come del resto spesso avviene negli studi che riguardano lo stato mentale delle persone. È infatti molto difficile creare condizioni sperimentali che permettano di capire se un dato esito sia dipeso o meno da una terapia, soprattutto in un contesto in veloce evoluzione come nel caso di persone nella loro fase di sviluppo tra inizio della pubertà e adolescenza.
    Il rapporto CassNel 2020 sempre in Inghilterra era stata intanto incaricata Hilary Cass di effettuare una analisi indipendente delle pratiche e degli studi scientifici pubblicati negli anni sull’argomento. Cass è una medica molto rispettata e ha avuto numerosi incarichi di rilievo nella sanità pubblica britannica e nel panorama accademico. Tra il 2012 e il 2015 è stata presidente del Royal College of Paediatrics and Child Health, il più importante organismo professionale dei pediatri nel Regno Unito e in precedenza era stata responsabile di alcuni ospedali pediatrici e della Scuola di pediatria di Londra. Nel 2015 per le proprie attività in ambito pediatrico ha ricevuto una delle più alte onorificenze del Regno Unito (OBE, Officer of the Order of the British Empire).
    Come avrebbe raccontato in seguito, Cass pensò che il lavoro potesse essere svolto in qualche mese: invece avrebbe richiesto quasi quattro anni per essere completato, sia per la complessità dell’argomento sia per la necessità di valutare nel modo più accurato possibile la letteratura scientifica.
    Poco dopo avere ricevuto l’incarico, Cass chiese all’Università di York di effettuare una serie di analisi degli studi esistenti, non solo per confrontare i loro risultati, ma anche per capire metodologie e approcci seguiti per svolgerli. Quel lavoro che ha coinvolto decine di ricercatrici e ricercatori ha portato alla produzione di alcune ricerche scientifiche che sono state comprese nel rapporto e che coinvolgono diversi aspetti della questione: sono per lo più revisioni analisi degli studi già prodotti su un determinato argomento nel tempo, sottoposte poi a processi di revisione da parte di altri esperti indipendenti (“peer review“).
    Linee guidaDue ricerche sono dedicate alla qualità e al modo in cui sono messe in pratica le linee guida e le raccomandazioni per gestire la disforia di genere nei giovani fino a 18 anni di età. Il lavoro si è concentrato su 23 linee guida pubblicate in vari paesi tra la fine degli anni Novanta e il 2022 ed è emerso che la maggior parte non offre un approccio «indipendente e basato sulle prove scientifiche» e informazioni adeguate sul modo in cui sono state realizzate. Le due ricerche hanno anche segnalato la mancanza di trasparenza sul modo in cui sono state sviluppate alcune raccomandazioni e l’assenza di revisioni sistematiche (in sostanza analisi di analisi) delle prove empiriche utilizzate.
    Per l’Italia è stato preso in considerazione uno studio svolto nel 2014 che aveva coinvolto diversi esperti del settore in quello che era stato definito dagli stessi autori: «Un approfondito brainstorming sull’applicazione delle linee guida internazionali nel contesto italiano». I centri di riferimento in Italia sono ancora relativamente pochi, uno dei più conosciuti è presso l’ospedale Careggi di Firenze, di recente sottoposto ad accertamenti da parte del ministero della Salute. Le analisi svolte all’Università di York avevano lo scopo di fare una valutazione generale sulle linee guida, di conseguenza non ci sono riferimenti o confronti specifici tra diversi paesi.
    Entrambe le ricerche hanno comunque messo in evidenza la mancanza di dati attendibili e la necessità di riempire molte lacune, in modo da offrire un servizio migliore a persone che si trovano in una fase critica del loro sviluppo. Partendo da questi risultati, nell’introduzione al proprio rapporto Cass ha scritto che solitamente in ambito medico si è molto cauti nell’adottare nuove scoperte ma che «nel campo dell’assistenza di genere per i bambini è avvenuto il contrario».
    BloccantiPer quanto riguarda i bloccanti per la pubertà, un altro studio effettuato sempre per il rapporto dall’Università di York ha preso in considerazione 50 ricerche sugli effetti di questo tipo di farmaci nei bambini e nelle bambine con disforia di genere. Il gruppo di ricerca ha concluso che un solo studio conteneva dati affidabili e di alta qualità, mentre 25 ne contenevano di «qualità moderata». I restanti 24 studi sono stati invece scartati dopo una prima analisi, perché ritenuti inconsistenti.
    Lo studio ha segnalato che in molti casi le ricerche si erano concentrate sull’efficacia dei trattamenti per fermare la pubertà e sugli effetti collaterali, senza però valutare se i farmaci avessero portato ai benefici attesi in termini di benessere e serenità delle persone coinvolte. Il gruppo di ricerca di York ha trovato indizi «molto limitati» sul fatto che i bloccanti per la pubertà migliorino le condizioni mentali e nel complesso ha scritto che non si possono trarre conclusioni sul loro impatto sulla disforia di genere. Per quanto riguarda gli eventuali effetti dopo i trattamenti, il gruppo di ricerca ha segnalato la presenza di qualche indizio sul peggioramento della salute dell’apparato osseo, in una fase in cui termina il proprio sviluppo.
    OrmoniUna quarta ricerca svolta sempre all’Università di York si è invece occupata dei trattamenti a base di ormoni, molto importanti per la transizione di genere e utilizzati dagli adulti transgender da molto tempo (la loro assunzione può portare a problemi di salute, ma i benefici per chi vive un disagio legato al genere atteso superano abbondantemente i rischi). Negli ultimi anni è diventata più frequente l’assunzione – sotto controllo medico – degli ormoni anche da parte degli adolescenti, dopo che hanno terminato l’assunzione dei farmaci per bloccare la pubertà. È uno degli aspetti più discussi e ha subìto spesso strumentalizzazioni di tipo politico, specialmente (ma non unicamente) dagli ambienti conservatori, e ha portato a limitazioni negli accessi alle terapie in alcuni paesi.
    In questo caso la ricerca ha riguardato l’analisi di 53 studi per verificare quale sia a oggi lo stato delle conoscenze su benefici, rischi ed eventuali effetti indesiderati dei trattamenti ormonali nelle persone di giovane età. A parte uno studio che effettivamente indagava gli effetti indesiderati, tutti gli altri sono stati valutati di qualità bassa o moderata a seconda dei casi, rendendo quindi impossibili conclusioni affidabili su questo tipo di trattamenti per lo meno sugli effetti per l’organismo.
    L’analisi ha trovato qualche indizio sul fatto che questi trattamenti possano comunque portare qualche beneficio dal punto di vista della salute mentale nelle persone trans di giovane età. Cinque studi tra quelli esaminati hanno indicato un miglioramento negli adolescenti con depressione, ansia e altre condizioni a un anno di distanza dall’inizio dei trattamenti. È però difficile stabilire quale sia stato di preciso il ruolo degli ormoni e se non si potessero ottenere i medesimi risultati in altro modo.
    Conclusioni e controversieIl rapporto Cass raccomanda che sia avviato uno studio più ampio sui bloccanti per la pubertà (in Inghilterra dovrebbe essere avviato entro fine anno), che siano svolte ricerche più approfondite sugli aspetti psicologici e legati alle linee guida impiegate e una maggiore raccolta di dati sui trattamenti a base di ormoni.
    La diffusione del rapporto, che era stata anticipata da alcune versioni provvisorie e dai risultati degli studi, è stata accolta con interesse ed è vista come la possibilità di ampliare il confronto su un tema già fortemente dibattuto e spesso polarizzante. Cass ha detto di essere consapevole che le conclusioni del suo lavoro avranno effetti diretti su alcune persone, per le quali ci saranno maggiori limitazioni, ma ritiene che questi effetti siano la dimostrazione della necessità di arrivare a qualcosa di meglio per loro: «Le abbiamo deluse perché le ricerche non sono valide a sufficienza e perché abbiamo pochi dati. La tossicità del dibattito è dovuta agli adulti, e questo non è corretto nei confronti dei bambini e delle bambine coinvolti».
    La scarsa disponibilità di ricerche di alta qualità dipende da numerosi fattori, anche molto diversi tra loro a seconda dei paesi e delle circostanze in cui vengono svolte. La quantità di casi relativamente contenuta, per esempio, rende più difficile avere dati a sufficienza per fare valutazioni ampie e arrivare a conclusioni affidabili. Le risorse finanziarie destinate a questo tipo di esperienze sono talvolta insufficienti, con poco personale medico che può occuparsene e che abbia poi anche il tempo e le opportunità per produrre studi e rapporti sulle pratiche seguite. È un problema comune a diversi ambiti dell’assistenza medica, in particolare in settori che per lungo tempo sono stati messi in secondo piano come quelli della salute mentale per il benessere complessivo di ogni persona.
    Il personale sanitario si muove in questo contesto non sempre ideale per prendere decisioni che avranno importanti conseguenze sulla vita dei loro pazienti. Decidere e avviare un trattamento, al meglio delle conoscenze acquisite in ambito scientifico (per quanto parziali), in alcuni casi è sentito come una necessità sia per la veloce evoluzione del fisico nella fase di sviluppo che richiede di intervenire in tempi rapidi, sia per ridurre il rischio di depressione e suicidi in età più matura.
    Si discuterà ancora a lungo del rapporto Cass soprattutto perché a oggi comprende alcuni degli studi scientifici più completi nella revisione delle ricerche prodotte in questi anni sui trattamenti per gestire la disforia di genere. Alcuni gruppi e associazioni che lavorano sulle questioni di genere hanno segnalato il rischio che il rapporto possa essere strumentalizzato, portando alla perdita di alcuni dei progressi raggiunti in questi anni per accompagnare e assistere i minorenni con varianza di genere. LEGGI TUTTO

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    È morto il fisico Peter Higgs

    È morto a 94 anni il fisico inglese Peter Higgs, noto per aver ipotizzato esplicitamente la presenza di una particella mai osservata prima, il cosiddetto bosone di Higgs. Nato a Newcastle upon Tyne, nel Regno Unito, nel 1929, era professore emerito di fisica teorica all’Università di Edimburgo, che ha dato notizia della sua morte, avvenuta l’8 aprile dopo una breve malattia. Per i suoi studi sulle particelle subatomiche nel 2013 Higgs ottenne il premio Nobel per la Fisica assieme al belga François Englert.Per descrivere l’esistenza e il comportamento delle particelle, nel corso degli anni i fisici hanno elaborato il “modello standard”. Questo comprende tre delle quattro forze fondamentali note (interazione forte, elettromagnetica e debole) e le particelle elementari relative. Il modello non dà però la risposta, al momento, a una domanda fondamentale: perché buona parte delle particelle elementari sono dotate di una massa? Se non ce l’avessero, tutte le cose che ci circondano sarebbero estremamente diverse da come le conosciamo.
    Se, per esempio, gli elettroni fossero privi di massa, gli atomi non esisterebbero per come sono ora noti. La materia non avrebbe le attuali forme e non ci sarebbero le scienze che studiamo oggi, gli animali, gli esseri umani e tutto il resto. Non ci sarebbero probabilmente nemmeno le stelle per come le conosciamo: brillano grazie alle interazioni tra le forze fondamentali della natura, che sarebbero molto molto diverse se le particelle non avessero massa.
    Il problema è che il concetto di massa non si adatta molto al modello standard, le cui equazioni di base sembrano richiedere che tutte le particelle ne siano prive.
    A partire dai primi anni Sessanta, Higgs, Englert e altri fisici proposero un sistema per integrare le equazioni del modello standard, rendendole compatibili con il fatto che molte particelle elementari hanno una massa. Questa integrazione viene chiamata “meccanismo di Higgs” e ha consentito ai ricercatori di approfondire le loro conoscenze sulla materia, formulando diverse previsioni anche sulla massa della particella più pesante fino a ora conosciuta, il top quark. Empiricamente, grazie a una serie di esperimenti, i fisici hanno poi trovato questa particella proprio nella posizione che era stata prevista teoricamente con il meccanismo di Higgs.
    Già negli anni Sessanta Higgs ipotizzò esplicitamente la presenza di una particella mai osservata prima per far funzionare il meccanismo che porta il suo nome. Questa particella ipotetica, che ha continuato a essere studiata, è appunto il bosone di Higgs, e si ipotizza che conferisca la massa alle altre particelle interagendo con loro. La ricerca sul tema è in corso da anni al CERN di Ginevra, principalmente grazie al Large Hadron Collider (LHC), un enorme acceleratore di particelle, e tra il 2012 e il 2013 ha portato a risultati sperimentali consistenti.

    – Leggi anche: Perché acceleriamo le particelle LEGGI TUTTO

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    Lo scorso marzo è stato il più caldo mai registrato

    Secondo il Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, lo scorso mese è stato il marzo più caldo mai registrato sulla Terra. La temperatura media globale è stata di 14,14 °C, 0,10 °C più alta del precedente mese di marzo più caldo mai registrato, quello del 2016. Il Climate Change Service sottolinea inoltre come marzo del 2024 sia il decimo mese consecutivo considerato il più caldo mai registrato a livello globale. Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati, tra cui le misurazioni dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare e le stime dei satelliti.– Leggi anche: Cosa è stato fatto finora per contrastare la siccità LEGGI TUTTO

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    Le foto dell’eclissi totale di Sole

    Caricamento playerIn un’ampia area del Nord America lunedì è stata visibile un’eclissi totale di Sole: l’evento non è di per sé insolito – c’è un’eclissi all’incirca ogni anno e mezzo – ma ha attirato grandi attenzioni perché ha interessato un’area fortemente popolata e facilmente accessibile per le osservazioni. I media statunitensi da giorni si occupano dell’eclissi e moltissime persone si sono organizzate per osservare il fenomeno nelle aree in cui era visibile, anche spostandosi da altre regioni degli Stati Uniti. LEGGI TUTTO

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    In Brasile e Colombia si è ridotta la distruzione delle foreste tropicali

    Caricamento playerNel 2023 sono stati abbattuti o bruciati circa 37mila chilometri quadrati di foreste tropicali, una superficie pari a quella di Toscana e Campania messe insieme, con una grave perdita per gli ecosistemi e in generale per il pianeta nel contrastare l’effetto serra. Secondo Global Forest Watch, l’iniziativa che ha diffuso i dati, il disboscamento continua a essere uno dei problemi ambientali più seri, ma ci sono stati comunque alcuni progressi, con una riduzione del 9 per cento del fenomeno tra il 2022 e il 2023, in particolare grazie ad alcune nuove politiche per la tutela delle foreste tropicali avviate in Sudamerica.
    Global Forest Watch offre una piattaforma online per tenere sotto controllo lo stato delle foreste del mondo e, insieme all’istituto di ricerca ambientale World Resources Institute, realizza periodicamente rapporti per confrontare negli anni la perdita di foresta pluviale primaria (cioè di foresta ancora incontaminata e non raggiunta dalle attività umane). Le analisi vengono fatte mettendo a confronto immagini satellitari di diversi periodi, in modo da verificare quali aree abbiano subìto attività di disboscamento anche in pochi mesi. Il sistema consente di verificare soprattutto le perdite dovute agli incendi, ma sono talvolta necessarie analisi successive per distinguere tra eventi naturali e fuochi appiccati intenzionalmente per guadagnare nuovo terreno per le coltivazioni.
    In Sudamerica si distruggono ogni anno grandi porzioni di foreste tropicali primarie per la costruzione di nuove strade e infrastrutture, oppure per rendere coltivabili i terreni. Il rapporto di Global Forest Watch segnala che nel 2023 sono stati distrutti circa 2mila chilometri quadrati di foreste tropicali in quella parte di mondo, un’area paragonabile a circa metà quella del Molise. La perdita è stata rilevante, ma inferiore del 24 per cento rispetto all’anno precedente, soprattutto grazie ai progressi raggiunti dai governi di Brasile e Colombia per limitare la distruzione delle foreste.
    Confronto tra 2022 e 2023 della perdita di foresta tropicale primaria nei dieci paesi del mondo in cui il fenomeno è più diffuso (Global Forest Watch)
    Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, rieletto nel 2022, si è impegnato a fermare completamente la deforestazione entro il 2030, un obiettivo molto ambizioso che non potrà essere raggiunto solamente attraverso l’intensificazione dei controlli. Lula ha revocato buona parte delle leggi che aveva fatto approvare il suo predecessore, Jair Bolsonaro, che di fatto avevano reso più semplice la deforestazione a scopi di sviluppo e commerciali, e ha riorganizzato l’agenzia governativa per la protezione per l’ambiente. Il presidente brasiliano intende inoltre aumentare le aree definite territorio per le popolazioni native, in modo da renderle protette e quindi rendere più difficile il disboscamento. In circa un anno sono già stati aggiunti otto nuovi territori, arrivando quasi a 500: l’intenzione è di riconoscerne altri 200 nel corso dei prossimi anni.
    In Colombia il presidente Gustavo Petro, eletto nel 2023, ha annunciato una nuova serie di politiche per ridurre la deforestazione comprese alcune campagne con contributi economici per le popolazioni locali in modo da disincentivare l’abbattimento degli alberi.
    Altri progressi sembra siano stati raggiunti in seguito ad alcune iniziative di Estado Mayor Central (EMC), il più importante gruppo dissidente delle Forze armate rivoluzionarie colombiane (FARC). Il gruppo di guerriglieri controlla un’area importante dell’Amazzonia e dal 2022 impone multe dell’equivalente di svariate centinaia di euro a chi abbatte illegalmente gli alberi. Il gruppo sostiene di farlo per motivi ambientalisti, ma secondo gli osservatori l’iniziativa è uno dei modi per avere maggiori possibilità di contrattare con il governo colombiano la fine delle ostilità (nel 2016 l’EMC non aveva accettato gli accordi di pace tra governo e FARC). Stando ai dati forniti da Global Forest Watch, in Colombia nel 2023 la perdita di foresta tropicale è stata inferiore del 49 per cento rispetto al 2022.
    I progressi raggiunti in Colombia e Brasile si inseriscono comunque in un contesto ancora negativo legato alla deforestazione, se si considera che dal 2001 al 2023 in Sudamerica è andato distrutto quasi un terzo delle foreste tropicali. La perdita non implica solamente una riduzione nella capacità del pianeta di sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera, uno dei principali gas serra. La riduzione delle foreste porta a una marcata riduzione della biodiversità, cioè della varietà di specie che popolano un certo ambiente, con un ulteriore impoverimento di alcuni dei territori altrimenti più floridi del pianeta sia dal punto di vista della flora sia della fauna. LEGGI TUTTO

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    E se l’energia oscura stesse diminuendo?

    Una nuova dettagliatissima mappa di milioni di galassie sta facendo molto discutere i cosmologi, cioè chi si occupa di studiare l’evoluzione dell’Universo nel suo insieme, e potrebbe portare a una profonda revisione delle teorie finora formulate per spiegare il funzionamento del cosmo. “Potrebbe” è la parola chiave, perché i dati sono ancora preliminari e serviranno molte altre misurazioni, ma i primi indizi hanno comunque sorpreso gli esperti e soprattutto chi studia la cosiddetta “energia oscura”, che secondo le teorie più condivise ha un ruolo fondamentale nel fare espandere sempre più velocemente l’Universo. Gli indizi sembrano suggerire che questa misteriosa energia stia lentamente diminuendo e non sia quindi costante.La mappa è stata presentata questa settimana dal Dark Energy Spectroscopic Instrument (DESI), una importante collaborazione scientifica per misurare l’effetto dell’energia oscura sull’espansione dell’universo. Contiene un’enorme quantità di dati e dal confronto di diverse osservazioni sembra confermare che l’energia oscura sia diminuita nel corso di miliardi di anni. I gruppi di ricerca coinvolti nel progetto hanno chiarito che al momento non ci sono dati tali da affermare di avere effettuato una nuova scoperta, ma che ci sono comunque indizi a tratti sorprendenti da approfondire.
    Materia oscura ed energia oscuraPer capire le implicazioni di un eventuale ripensamento dell’energia oscura è necessario fare qualche passo indietro e ripartire dalla materia, cioè ciò di cui siamo fatti e che ci circonda: proprio perché è ciò che siamo, la vediamo di continuo al punto da non farci quasi caso. Nel nostro percepito la materia è tantissima, ma in termini cosmologici è relativamente poca: si stima che costituisca meno del 5 per cento dell’Universo conosciuto. Tutto il resto, secondo le teorie più discusse, è formato per il 25 per cento circa di materia oscura e per il 70 per cento di energia oscura.

    – Leggi anche: Che cos’è l’energia

    Come suggerisce il nome, entrambe sono completamente invisibili sia ai nostri occhi sia agli strumenti, al punto da non sapere nemmeno di preciso che cosa siano né come funzionino. Siamo però abbastanza certi che esistano, perché in loro assenza non si potrebbero spiegare alcuni dei fenomeni che invece riusciamo a osservare e che conosciamo ormai piuttosto bene. Detta in altre parole: le teorie per spiegare come funziona l’Universo hanno bisogno sia della materia oscura sia dell’energia oscura per stare in piedi.
    Rappresentazione schematica di che cosa si intende per “materia” in rapporto alle altre forme “oscure” ipotizzate (ESA)
    Quando nel Novecento si iniziarono a calcolare le caratteristiche dell’Universo e ad applicare modelli teorici per spiegarne le peculiarità, infatti, divenne evidente che la quantità di materia che ci è visibile non era sufficiente per spiegare il modo in cui è strutturato e rimane insieme l’Universo.
    Per esempio, la quantità di materia osservabile di una galassia (cioè un grande insieme di stelle, pianeti e materiale interstellare soprattutto sotto forma di gas e polveri) è relativamente poca e non è sufficiente per far sì che le stelle che ne fanno parte restino insieme senza sparpagliarsi per l’Universo (c’è una stretta relazione tra massa e interazioni gravitazionali che tengono vicini i corpi). Uno dei modi per spiegare questa stranezza è ipotizzare che ci sia qualcos’altro dentro e intorno alle galassie che ne favorisce la coesione, qualcosa che non emette o riflette luce e che non si fa rivelare, ma che comunque esiste e aggiunge ulteriore massa: la materia oscura.
    La sua esistenza aiuta a spiegare molto, ma non tutto. Circa un secolo fa si scoprì che l’Universo si sta espandendo e circa 70 anni dopo fu anche scoperto che l’Universo è in una fase di espansione accelerata, cioè che la velocità a cui si sta espandendo aumenta nel tempo. Fu una scoperta rivoluzionaria e inattesa, perché contraddiceva alcune parti del modello teorizzato fino ad allora per descrivere l’Universo, secondo il quale la gravità avrebbe via via portato l’espansione a rallentare.
    A un quarto di secolo di distanza da quella importante scoperta, non sappiamo che cosa determini l’accelerazione, ma ci sono comunque diverse teorie. Una delle più condivise ipotizza l’esistenza dell’energia oscura, cioè di un particolare tipo di energia che contrasta in qualche modo la gravità e fa sì che l’Universo acceleri nella propria espansione. È una forma di energia ipotetica che sarebbe distribuita omogeneamente nello spazio e che come nel caso della materia oscura non riusciamo a rilevare direttamente.
    ΛLa presenza dell’energia oscura è prevista nel modello Lambda-CDM, considerato il “modello standard” della cosmologia, cioè quello attualmente più adatto e semplice per provare a spiegare il funzionamento su grande scala dell’Universo nella sua espansione accelerata. Il nome deriva dalla costante cosmologica, indicata con la lettera Λ (lambda) dell’alfabeto greco, e inizialmente inserita da Albert Einstein nelle proprie equazioni per la teoria della relatività generale ipotizzando un universo statico. Oggi la costante cosmologica ha un ruolo diverso ed è usata per provare a spiegare l’accelerazione dell’espansione dell’Universo.
    Rappresentazione schematica delle principali fasi di evoluzione dell’Universo (NASA)
    Più questo si espande, più la materia e l’energia che riusciamo a osservare diventano meno dense perché si “spalmano” in uno spazio sempre più grande. Questa riduzione della loro densità dovrebbe essere accompagnata da un rallentamento nell’espansione dell’Universo e non da una sua accelerazione, come è stato invece osservato.
    C’è però una cosa che non si diluisce con l’espansione dello spazio e questa è lo spazio stesso: se una stanza inizia a espandersi, tutto al suo interno sembra allontanarsi e quindi diluirsi, a parte lo spazio all’interno della stanza stessa. Ipotizzando che il vuoto che costituisce lo spazio abbia una propria energia, all’aumentare del vuoto aumenta l’energia e di conseguenza l’accelerazione nell’espansione. Questa energia del vuoto su scala cosmologica può fornire una spiegazione dell’energia oscura.

    – Leggi anche: Niente, un articolo sul vuoto

    Ovviamente studiare qualcosa che non è direttamente misurabile è molto difficile, ma si possono effettuare analisi indirette raccogliendo dati estremamente precisi su ciò che invece possiamo osservare e misurare, confrontandolo poi con ciò che ci si aspetta sulla base dei modelli teorici. Negli ultimi anni i sistemi di misurazione sono migliorati enormemente e questo ha permesso di avere dati molto più precisi di un tempo.
    DESITra i migliori oggi disponibili ci sono quelli delle osservazioni effettuate da DESI con il telescopio Mayall di Kitt Peak in Arizona (Stati Uniti). Il telescopio è stato attrezzato con un sistema di acquisizione basato su 5mila sensori a fibra ottica, ciascuno dei quali tiene traccia di specifiche galassie lontanissime, talmente lontane da potere osservare come si presentavano miliardi di anni fa, perché la loro luce impiega moltissimo tempo per raggiungerci. In un certo senso DESI vede quindi nel passato e soprattutto consente di confrontare lo spostamento relativo delle galassie dalle loro vicine e da noi in base all’epoca in cui effettivamente si trovano (più sono distanti più sono epoche antiche), permettendo in questo modo di calcolare come e quanto si stia espandendo l’Universo. Catalogarle in base a determinate epoche è essenziale, altrimenti si confronterebbero gli spostamenti tra galassie di epoche diverse.

    Grazie alle osservazioni compiute da DESI tra la primavera del 2021 e quella del 2022 è stato possibile mappare con grande precisione la posizione di 6mila galassie per come apparivano tra i 2 e i 12 miliardi di anni fa, sui circa 13,8 miliardi di età stimata dell’Universo. Sono state suddivise in sette grandi epoche e i gruppi di ricerca sono poi andati a vedere se ci fosse una corrispondenza tra quanto osservato e quanto previsto da Lambda-CDM, confrontando i risultati anche con quelli ottenuti da altri esperimenti.
    I confronti hanno portato a sospettare che l’energia oscura non sia costante nel tempo, ma subisca oscillazioni e che stia diminuendo. I risultati hanno però una rilevanza statistica ancora relativamente poco affidabile, a indicazione del fatto che potrebbero esserci minuscoli errori di misurazione che portano a interpretare in modo scorretto alcuni risultati. Per questo motivo i gruppi di ricerca di DESI hanno raccolto molti altri dati ancora da analizzare, che potranno poi essere confrontati con quelli raccolti da altri esperimenti che si occupano di energia oscura, come la sonda Euclid dell’Agenzia spaziale europea.
    È quindi presto per arrivare a qualche conclusione, ma l’ipotesi che l’energia oscura si stia indebolendo è affascinante perché implicherebbe che non può essere considerata una costante cosmologica. Se diminuisse a sufficienza, l’accelerazione cosmica si interromperebbe e sotto l’effetto della gravità l’espansione si trasformerebbe in una lenta contrazione: in questo caso l’Universo tornerebbe quindi a contrarsi dopo essersi espanso, come postulato da alcune teorie sulla sua ciclicità.
    Saranno necessarie molte altre misurazioni per avere qualche conferma o smentita, ma il grande fermento intorno ai primi risultati di DESI ricordano ancora una volta come siano proprio le grandi incertezze a portare a nuovi progressi nella scienza, rimettendo se necessario in discussione tutto, quando ci sono buoni dati per farlo. LEGGI TUTTO