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    Torroni e prodotti del territorio: così la pasticceria Macioce custodisce la tradizione di Alvito

    Nel cuore della Valle di Comino, in provincia di Frosinone, nella splendida Alvito si possono ancora gustare i sapori di una volta. Sensazioni ed emozioni ormai scomparse possono essere ritrovate nelle creazioni della pasticceria Macioce, orgoglio del territorio. Questo negozio è diventato negli anni un punto di riferimento per la collettività alvitiana ma anche per i tanti turisti che ogni anni visitano il borgo, situato a mezza costa sul versante meridionale del Monte Morrone, al confine con l’Abruzzo.I dolci di questo locale sono riusciti a valicare i confini regionali conquistando una diffusione nazionale. I torroni di Alvito, di cui la pasticceria Macioce è produttore d’eccellenza, sono diventati un simbolo d’alta cucina e pasticceria di questo territorio, un vanto di cui le maestranze sono fiere fautrici. Questo prodotto ha saputo creare un turismo gastronomico importante in questo angolo di Ciociaria, con numerose persone che vi si recano appositamente per acquistare il famoso torrone. Con questo pretesto, non mancano di visitare le perle nascoste della zona, che si sviluppa sul versante laziale del Parco Nazionale d’Abruzzo.Certo, i torroni di Alvito sono una prelibatezza nota, ma non certo l’unica della pasticceria Macioce, che offre agli avventori numerose proposte, tra torte in svariate composizioni, ma anche pasticceria e idee diverse per colazione o merenda, ma anche per l’aperitivo. Un cabaret completo di suggestioni dolciarie che incantano non solo per l’aspetto ma soprattutto per il loro sapore. Gli ingredienti di prima scelta, prevalentemente del territorio, che si sposano alla perfezione grazie alla maestria delle mani di chi le confeziona. È questo il segreto che l’ha resa una vera istituzione del territorio ciociaro. LEGGI TUTTO

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    Stellantis, nuova cassa integrazione a Mirafiori per la 500e e Maserati

    Non c’è pace per Mirafiori. Tra pomposi proclami e minacce, oggi è arrivata una nuova comunicazione da parte di Stellantis: cassa integrazione per tutti gli oltre 2.000 lavoratori della 500 elettrica e della Maserati da lunedì 22 aprile fino a lunedì 6 maggio compreso. Una nuova mazzata, l’ennesima, a pochi giorni dallo sciopero proclamato per chiedere il rilancio dello storico stabilimento torinese:”Questa ennesima richiesta di cassa dimostra fattivamente che abbiamo ragione come sindacati a richiedere nuovi modelli da produrre e che senza di essi l’unica cosa certa è il continuo utilizzo degli ammortizzatori sociali. Purtroppo Tavares l’altro giorno non ha detto nulla sulle nuove produzioni”, la denuncia di Edi Lazzi, segretario generale della Fiom-Cgil di Torino, e Gianni Mannori, responsabile di Mirafiori per la Fiom.Da capitale italiana dell’auto e, più in generale, la produzione nel Paese al rischio smantellamento, Torino ribolle. I sindacati invocano una trattativa a Palazzo Chigi con il governo e Stellantis per mettere al centro Mirafiori ma anche gli altri stabilimenti italiani. Luigi Paone, segretario generale Uilm Torino, ha posto l’accento sulla necessità di un nuovo modello per lo stabilimento torinese, considerato fondamentale per la sopravvivenza della struttura. Il segretario territoriale Fismic Confsal, Sara Rinaudo, ha parlato invece di “una nuova doccia fredda”: “Serve subito, senza più prendere tempo con annunci che rimangono vaghi e nell’etere, un nuovo modello per salvare il sito. Come già affermato, deve essere allocata immediatamente all’interno di Mirafiori l’intera gamma della 500”. LEGGI TUTTO

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    Telepass, cambia tutto: ecco le novità in arrivo

    Sono in arrivo importanti novità per i clienti Telepass, il metodo conosciuto soprattutto per pagare automaticamente il pedaggio sulle autostrade italiane ma che negli anni ha offerto sempre più servizi che oggi contemplano anche il pagamento del lavaggio auto, le corse dei taxi, treni, mezzi pubblici e skipass. Tra i principali cambiamenti l’aumento delle tariffe sugli abbonamenti, l’offerta Plus e l’intenzione di puntare anche sui centri urbani.Come cambia l’abbonamentoDal 1° luglio, complice anche la concorrenza di UnipolMove e Mooney, il prezzo dell’abbonamento base sarà 3,90 euro (oggi costa 1,83 euro), si potranno associare due targhe nello stesso dispositivo ed altri servizi quattro servizi aggiuntivi. Sempre a 3,90 euro ecco la tariffa Plus che rimarrà attiva per un anno e mezzo fino al mese di dicembre 2025. Sempre dal 1° luglio dell’estate in arrivo ecco la nuova soluzione “Pay per Use”, “un’offerta che prevede infatti l’addebito di una fee ‘giornaliera’ per il solo giorno di utilizzo del servizio”. Per questa offerta il dispositivo verrà spedito a casa ed è senza costi mensili o spese ulteriori: la sua attivazione è di 10 euro, poi si pagheranno 2,50 euro soltanto quando si utilizzano tutti i servizi.Gli abitanti di Milano potranno attivare il servizio disponibile per l’Area C così da entrare in centro senza ticket ma utilizzando il servizio “Memo in App” così da tenere sempre sotto controllo le scadenze dei veicoli.Le novità per i giovaniTra i giovani che usano di meno l’auto la società ha pensato una nuova soluzione più smart chiamata “Young”: si potrà attivare con carta di credito (o debito) includendo “i principali servizi legati alla mobilità presenti nella piattaforma Telepass, ad esclusione del telepedaggio e del relativo dispositivo di bordo”. In questo caso i giovani non dovranno avere a portata di mano il dispositivo ma sarà necessaria l’app dedicata scaricata sullo smartphone.Cosa cambia per i centri urbaniCome detto, ecco che oltre alla rete austradale maggior risalto sarà dato ai servizi sui centri urbani con il progetto “Top 50 Cities” che intende rafforzare la qualità e diffusione dell’offerta con l’ausilio delle pubbliche amministrazioni locali per “migliorare l’esperienza di viaggio e risparmiare tempo in tutte le principali città italiane, non solo in quelle più grandi”. LEGGI TUTTO

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    Ue, Draghi: “Proporrò cambiamenti radicali, bisogna agire come mai prima”

    Mario Draghi, intervenendo a un evento sul pilastro sociale europeo a La Hulpe, in Belgio, ha fatto il punto sull’Europa di oggi e su quello che l’Unione dovrebbe diventare nel futuro. Dato come uno dei papabili per ricoprire posizioni apicali nell’Unione europea, l’economista ha illustrato il quadro in cui l’Europa si sta muovendo e si muoverà. “Ci serve un’Unione europea che sia all’altezza del mondo di oggi e di domani. Quindi ciò che propongo nel rapporto che la presidente della Commissione mi ha chiesto di preparare è un cambiamento radicale. Che è ciò che è necessario”, ha dichiarato l’ex presidente della BCE ed ex premier italiano.Per raggiungere gli obiettivi indicati, però, Draghi rimarca con forza che “la coesione politica della nostra Unione esige che agiamo insieme”. E ripristinare la competitività europea, ha aggiunto l’ex premier, “non è qualcosa che possiamo ottenere da soli, o solo battendoci a vicenda, richiede che agiamo come Unione europea come non abbiamo mai fatto prima”. Il gruppo si trova al momento davanti a sfide molto importanti che non possono essere rimandate e, data l’urgenza, prosegue Draghi, “non abbiamo il lusso di ritardare le risposte a tutte queste importanti questioni fino alla prossimo cambiamento dei trattati”. In questa ottica serve “sviluppare ora un nuovo strumento strategico per il coordinamento delle politiche economiche”.E se, come Unione europea, spiega Draghi, “arriviamo alla conclusione che non è fattibile, in alcuni specifici casi dovremmo essere pronti a considerare di andare avanti con un sottogruppo di Stati, ad esempio per andare avanti sull’Unione dei mercati capitali per mobilitare investimenti”. Valutare di volta in volta chi può andare avanti e spingere su quelli, sembra essere la ricetta di Draghi, che però ribadisce comunque la regola della coesione politica dell’Ue, che richiede “che agiamo insieme, possibilmente sempre”. Ma davanti agli scenari che si configurano e che sono in continua evoluzione, “dobbiamo essere coscienti che la nostra coesione politica è minacciata dai cambiamenti nel resto del mondo”.Le politiche spesso miopi portate avanti negli ultimi anni in Europa non ci hanno permesso di essere pronti quando gli scenari internazionali sono cambiati, cogliendoci di sorpresa. “Altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva. Nella migliore delle ipotesi, queste politiche sono progettate per reindirizzare gli investimenti verso le loro economie a scapito delle nostre”, è il monito di Mario Draghi, che spiega come la peggiore delle ipotesi, in questo scenario, siano politiche progettate “per renderci permanentemente dipendenti da loro”. LEGGI TUTTO

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    Il tramonto dell’iPhone. Crisi interne e rivali stanno smontando la leggenda della Apple

    La semplicità è la più grande forma di sofisticazione, diceva Steve Jobs. Il problema però è che per l’iPhone è diventato tutto molto complicato.Lo stanno smontando, pezzetto per pezzetto, dall’interno e dall’esterno. Resta lo smartphone più venduto, quello più desiderato, il dispositivo che tutti i ragazzi vogliono, perché se non hai AirDrop per passarti foto e file in un attimo sei proprio uno sfigato. Eppure l’iPhone non è più lui, o meglio è sempre lo stesso, modello dopo modello: migliora ma non troppo, però non si evolve. Come un monumento alla sua grandezza che però comincia a mostrare qualche crepa.Per esempio: il sistema chiuso inventato da Jobs e difeso strenuamente da Tim Cook, non è più un mantra. Sì, «è per la privacy degli utenti», che poi è sempre stata l’ossessione di Apple. Vero, ogni dato sensibile resta nel telefono, ogni spostamento, pagamento, inserimento, nei server di Cupertino appaiono come ombre nel deserto, criptate e inaccessibili. Però, poi, la sicurezza ha mostrato qualche primo imbarazzo, e già nel 2023 gli ingegneri dell’azienda più (auto)ammirata del mondo sono dovuti intervenire almeno una decina di volte per tappare dei buchi trovati dai pirati del web. E se la modalità isolamento disponibile nelle impostazioni è, come dice il sito dell’azienda, la funzionalità di protezione più elevata per iPhone, è altrettanto inevitabile che non sia una sicurezza assoluta. Esisteva invece, almeno così si pensava un tempo.E allora il totem non c’è più, anche perché non è neppure quell’oggetto indiscutibile nessuno una volta non si sarebbe mai segnato di mettere in dubbio. E invece ci ha pensato prima l’Europa, cominciando dalla porta d’ingresso, quella Usb-C che hanno tutti e che gli iPhone 15 sono stati costretti ad adottare, pena il bando dal mercato del Vecchio Continente. La stessa porta d’ingresso che portava a un club esclusivo di miliardi di persone nel mondo. E poi il Digital Markets Act, che costringerà il sistema operativo ad accettare l’innominabile, ovvero servizi di altre aziende concorrenti, una specie di eresia che ha sollevato una fiera protesta dagli uffici della sede circolare nella Silicon Valley, ma non di più: musica, mappe, wallet, non resterà nulla che non abbia un’alternativa accessibile. E poi, la verità è che il segnale definitivo è arrivato in casa, quando a marzo l’Antitrust più 15 Stati americani hanno scatenato l’inferno, certificando che nessuno può essere intoccabile per sempre: Quello dell’iPhone è un monopolio. La causa sarà lunga ma in qualche modo il destino è segnato.Così l’Phone 16 che uscirà in autunno sarà ancora il miglior iPhone di sempre, come recitano ogni volta orgogliosamente i comunicati della vittoria di Apple, eppure non sarà la stessa cosa: a giugno, quando l’azienda riunirà come al solito tutti i suoi sviluppatori di app nella conferenza annuale, si capirà quanto. Ma il cambiamento è già iniziato e se vi è capitato di scaricare l’ultimo aggiornamento del sistema operativo, ovvero l’iOS 17.4.1, vi sarete accorti che – quando avete riacceso tutto – lo smartphone vi ha chiesto quale browser volete adottare per navigare in internet, con una lista da cui scegliere: Safari, insomma, diventa un’eventualità.Come si è arrivati a questo punto? Forse per pigrizia, nel senso di una visione del futuro che Apple ha pensato fosse comunque una strada segnata. O forse perché le visioni e i visionari, a un certo punto della storia, finiscono. Così, mentre le aziende concorrenti hanno investito per rendere i loro smartphone sempre più performanti, l’iPhone è rimasto un po’ nel mezzo, nel design (non cambia aspetto ormai da dalla versione 12, se non in qualche minimo particolare), nell’unicità (i modelli sono diventati 4), nel progresso (la fotocamera è arrivata a 48 megapixel quando in giro si parla ormai di 200), nei difetti (la batteria è rimasta il solito problema da risolvere, mentre i rivali durano anche due giorni e si ricaricano in meno di mezzora). Costa sempre tanto, e siccome viene comprato (sempre di più a rate) ha ragione di esserlo, costoso. Però nella storia della tecnologia dormire sugli allori di solito non ha prodotto grandi risultati. E poi c’è il fatto che l’iPhone sembra quasi essere come quei soprammobili che i manager mettono sul tavolo e che man mano nel tempo arretrano nella fila dei più desiderati: la Apple di Cook, in pratica, rendendosi conto che la rivoluzione smartphone avrebbe avuto un limite, ha trasformato l’azienda in un fornitore di servizi, cosa che ha permesso di continuare a macinare miliardi di trimestrali di fatturato grazie alle app (e alle commissioni applicate). Solo che ora quei servizi sono sotto attacco, e il capo sarà costretto a scendere a compromessi. Anzi: lo sta già facendo.Perché poi, certe cose, cominciano sempre dove meno te lo aspetti. L’Oregon, uno Stato che ha meno abitanti di Roma, ha recentemente introdotto per legge il diritto alla riparazione, ovvero la possibilità dell’utente di far sistemare il proprio smartphone in qualsiasi negozio specializzato in nome della sostenibilità e della lotta ai rifiuti elettronici. Sì, anche l’iPhone: sacrilegio. Una norma che presto diventerà tale anche in altri pezzi d’America, e così l’azienda è già corsa ai ripari annunciando che da novembre sarà possibile accedere agli strumenti di riparazione fai-da-te selezionando anche singole parti di sostituzione non nuove, sempre originali, ma usate. Però è un palliativo, appunto un compromesso: si può mettere le mani dentro un iPhone, è questa è un’altra di quelle cose che sembravano impossibili. Come il fatto che in Cina il Melafonino dovrà avere Baidu, il Google cinese, come sistema per introdurre l’intelligenza artificiale. Praticamente una resa. LEGGI TUTTO

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    Bonus Università private: come accedere e quali sono i requisiti

    Una detrazione fiscale Irpef sulle spese di iscrizione alle università private con importi che variano in relazione alla disciplina scelta dallo studente e dall’area geografica in cui si trova l’ateneo. È questo il bonus università private, misura introdotta dalla legge 28 dicembre 2015, n. 208, che attraverso una riduzione delle spese attraverso l’istituto della detrazione fiscale in sede di dichiarazione dei redditi, mira a favorire l’accesso all’istruzione superiore privata.Ma come è possibile accedere al bonus e quali sono i requisiti? Entriamo più nel dettaglio.Chi può ottenere il bonusPur avendo come scopo quello di favorire i percorsi di studi privati per gli studenti, il beneficio che deriva dal bonus è diretto a coloro i quali pagano la retta e dunque, i genitori del giovane o allo studente stesso se non risulta più a carico della famiglia.Per potervi accedere, a partire dal 2020, occorre avere un reddito complessivo non superiore a 120mila euro per ottenere la detrazione massima possibile che, invece, cala sino ad azzerarsi nel caso di reddito complessivo superiore a 240mila euro.Si tratta di importi molto alti e che, dunque, rendono molto amplia la platea dei possibili destinatari.La detrazione può essere riconosciuta sia nel caso di iscrizioni a corsi di laurea, laurea magistrale e laurea magistrale a ciclo unico che a corsi di dottorato, specializzazione e master universitari di primo e secondo livello.A quanto ammontaOgni anno le “tabelle” dei massimali vengono riformulate e va fatta una distinzione per indirizzo di studio e ambito geografico in cui si trova l’istituto.Gli importi, pertanto, possono essere così suddivisi:per iscrizioni a corsi del settore dell’area medica, i massimali sono di 3900 euro per il nord Italia, 3100 per il centro e 2900 per il sud e le isole.per iscrizioni a corsi del settore dell’area sanitari, i massimali sono di 3900 euro per il nord Italia, 2900 per il centro e 2700 per il sud e le isole.per iscrizioni a corsi del settore dell’area tecnico scientifica, i massimali sono di 3700 euro per il nord Italia, 2900 per il centro e 2600 per il sud e le isole.per iscrizioni a corsi del settore dell’area umanistico sociale, i massimali sono di 3200 euro per il nord Italia, 2800 per il centro e 2500 per il sud e le isole.per iscrizioni a corsi del settore dell’area umanistico sociale, i massimali sono di 3200 euro per il nord Italia, 2800 per il centro e 2500 per il sud e le isole. LEGGI TUTTO

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    Fondi pensione “chiusi”. Come scegliere la linea di investimento | La guida

    Sono poco più di 4 milioni i lavoratori dipendenti che risultano iscritti ai fondi pensione cosiddetti negoziali, o “chiusi”, poiché la condizione per potersi iscrivere è l’adesione a un contratto collettivo nazionale di lavoro (ma esistono anche accordi territoriali) , che prevede appunto la costituzione di uno specifico fondo pensione. I metalmeccanici possono iscriversi solo al fondo Cometa, i chimici a Fonchim, e così via. La prossima settimana si svolgerà l’assemblea annuale dell’associazione, Assofondipensione, cui aderiscono i 32 fondi pensione chiusi esistenti, con un patrimonio complessivo di 67 miliardi di euro.I numeri fotografano quella che è una condizione generale, non rosea, di iscrizione ai fondi pensione in generale: i lavoratori dipendenti rappresentano oltre il 40% di tutti gli italiani (9,6 milioni a fine 2023) che hanno scelto un fondo pensione (compresi quelli aperti, i Pip o i fondi preesistenti). Ma se rapportati ai circa 13 milioni di lavoratori dipendenti totali, solo un terzo ha scelto di scommettere sulla “pensione di scorta”.L’assemblea di Assofondipensione avrà come tema “l’inverno demografico” e l’intelligenza artificiale, due fattori che rischiano di determinare un calo sensibile nel numero di lavoratori (e quindi anche di contribuenti della previdenza complementare). I fondi negoziali hanno fatto registrare 211.000 posizioni in più rispetto alla fine dell’anno precedente (+5,5%).Chi può aderire a un fondo chiusoGli incrementi maggiori continuano a rilevarsi nel fondo rivolto al settore edile (+87.700 posizioni), destinatario dell’adesione contrattuale di lavoratori attraverso il versamento di un contributo, ancorché di importo modesto, a carico del solo datore di lavoro, e nel fondo del pubblico impiego (+37.600 posizioni), per il quale è attiva l’adesione anche tramite silenzio-assenso per i lavoratori di nuova assunzione.Ma chi può scegliere di farsi una “pensione di scorta” utilizzando un fondo pensione chiuso o negoziale?dipendenti del settore privato che appartengono alla stessa categoria contrattuale, alla stessa impresa o gruppo di imprese o territorio;dipendenti del settore pubblico;soci lavoratori di cooperative;lavoratori autonomi e liberi professionisti, anche organizzati per aree professionali e territoriali.Gli accordiI fondi pensione negoziali possono essere istituiti in base a specifici atti e accordi di natura contrattuale:contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dai rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori. In assenza, tramite regolamenti aziendali;accordi tra i soci lavoratori di cooperative;accordi tra lavoratori autonomi e liberi professionisti promossi dai relativi sindacati o associazioni di categoria regionali e nazionali.Anche le Regioni, con legge regionale, possono istituire un fondo pensione negoziale.I contributi da versarePer il lavoratore dipendente del settore privato la contribuzione viene stabilita in sede di contrattazione collettiva. Il datore di lavoro verserà sulla posizione individuale dell’aderente:il contributo a carico del lavoratore, nell’importo previsto dall’accordo collettivo o regolamento aziendale (ferma restando la possibilità di contribuire in misura superiore);il contributo dell’azienda, nella misura prevista dall’accordo collettivo o regolamento aziendale (cui il lavoratore ha diritto solo se effettua il proprio versamento);il TFR futuro (cioè il TFR maturato dal momento dell’adesione), in tutto o in parte, in base a quanto previsto dall’accordo collettivo o regolamento aziendale.È possibile versare anche il solo TFR; in tal caso il datore di lavoro non ha l’obbligo di versare il proprio contributo. Se l’adesione avviene mediante il meccanismo del conferimento tacito del TFR e in quella contrattuale, è opportuno che il lavoratore valuti di integrare le somme versate con il proprio contributo. In tal caso, il datore di lavoro ha l’obbligo di effettuare l’ulteriore versamento secondo quanto previsto dagli accordi.Le categorie di investimentoIl fondo pensione negoziale offre all’aderente una o più linee di investimento (o comparti). Ciascuna linea è caratterizzata da una combinazione di strumenti finanziari che tiene conto anche dell’orizzonte temporale dell’investimento e da una specifica relazione di rischio e rendimento. Le linee di investimento sono classificate in base agli strumenti finanziari che vengono acquistati e sono riconducibili alle seguenti categorie: LEGGI TUTTO

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    Retromarcia Stellantis: la Milano cambia nome

    Alfa Romeo Milano? No, si chiamerà Junior. In neppure una settimana, a battesimo avvenuto praticamente in mondovisione, i grandi capi di Stellantis hanno innestato la retromarcia. Troppe le polemiche, con prese di posizione anche da parte di Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, rispetto al nuovo crossover compatto prodotto in Polonia e dedicato alle origini milanesi (1910) del marchio.Una scelta definita controsenso e non all’insegna dell’italianità. Quindi, addio Milano, e ben tornata la denominazione Alfa Romeo Junior che si rifà alla Gt 1300 lanciata nel 1966 e venduta in 92mila esemplari, un vero status symbol dell’epoca.«Siamo perfettamente consapevoli che questo episodio rimarrà inciso nella storia del marchio. È una grande responsabilità, ma al tempo stesso è un momento entusiasmante. La scelta del nuovo nome Junior è del tutto naturale, essendo fortemente legato alla storia del marchio ed essendo stato fin dall’inizio tra i nostri preferiti e tra i preferiti del pubblico. Decidiamo di cambiare, pur sapendo di non essere obbligati a farlo, ed evitare qualsiasi tipo di polemica», la spiegazione fornita da Jean-Philippe Imparato, ad di Alfa Romeo in Stellantis. Decisione presa, aggiunge una nota, «nell’ottica di promuovere un clima di serenità e distensione». Basterà?Intanto, nei prossimi giorni è previsto l’arrivo in Italia, si parla di Milano, di Yin Tongyue, presidente del colosso cinese Chery, gruppo che starebbe discutendo proprio con il ministro Urso per produrre nel nostro Paese.È vero che Chery sta per siglare un accordo per iniziare a sfornare vetture a Barcellona, in Catalogna, ma si tratterebbe di assemblare e adattare veicoli importati dalla Cina, non di una autentica produzione completa. In pratica, lo stesso metodo adottato dall’italiana Dr Automobiles, di Massimo Di Risio, a Macchia d’Isernia. Spagna a parte, la reale intenzione del presidente Yin Tongyue sarebbe di avere in Europa un vero stabilimento produttivo.Allen Jean, country manager di Omoda (Chery) aveva confermato di recente al giornale.it che «stiamo vagliando varie possibilità e l’Italia potrebbe essere anche un’ipotesi da tenere in considerazione».Come riporta l’agenzia Reuters, stabilire una capacità produttiva in Italia o in Spagna, dove la domanda di auto elettriche è relativamente bassa, si adatterebbe alla strategia di Chery di vendere un mix di veicoli con motore a combustione interna, ibridi e completamente elettrici. Un piano d’azione che non fa dormire sonni tranquilli ai gruppi occidentaliOltre che con Chery, il ministro Urso ha in corso colloqui anche con Byd, che però ha già programmato di produrre in Ungheria, e sembra pure con Seres, di cui alcuni modelli fino a poco tempo fa erano importati in Italia da parte del gruppo Koelliker. LEGGI TUTTO